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IL significato più ampio del folclore scaturisce da tutto ciò che è stato trasmesso oralmente dalle popolazioni, dagli anziani, per secoli.
Rientra in una tale definizione (folclore) tutto ciò che la gente sapeva e faceva in connessione con la fatica dei campi, le scadenze agrarie, la semina, la mietitura, il raccolto, i giochi, le feste religiose, i mestieri e le arti, ogni aspetto della vita contadina, il ruolo e la presenza della superstizione, delle forze soprannaturali, le credenze ed i culti della tradizione.
La città agricola ed arcaica ereditata dal passato medioevale e dal brigantaggio, dalle movimentate vicende dell’Unità d’Italia e poi anche dalla prima guerra mondiale, raccoglieva, attorno al suo centro, una specie di cinta muraria o di confine, con le sue porte, il borgo o il contado, con gente contadina, quasi selvatica, mulattieri e boscaioli, poco grano – ghiande e miglio – che mangiava la minestra nelle grandi scafaree di terracotta, con cannucce (forcine) e beveva la povera sottapera, con attività primordiali, secondo le esigenze, le fatiche agricole, le stagioni, i fenomeni meteorologici, i cicli lunari…
Al di là del centro abitato, quasi d’assalto ai vicoli vi era la campagna, quella delle leggende, delle foreste e dei pascoli con le greggi e le mandrie, spesso considerata ostile, inaccessibile, inviolabile, covo di lupi e di volpi, regno del genio malefico, dei falchi e dei gufi e che assaliva la città, la assediava con i suoi venti, le sue stagioni, i soffi dello scirocco, a volte del favonio, e d’inverno con l’urlo di borea, attraversando i vicoli, i boccaporti della città.
Perciò le feste di maggio hanno la finalità di cancellare i guai ed i peccati dell’inverno e di auspicare, predeterminare e preassicurare l’abbondanza e la prosperità per l’estate che subentra.
Perciò va bruciato un fantoccio assieme alla jaccara, quasi un re dei saturnali e del carnevale, al fine di eliminare il male in tutte le sue forme.
Le jaccare si installano negli ambienti più ampi … fari fiammeggianti della notte, in ogni cuntana, in ogni largo e lungo via Pretoria si accendono decine di fanoi (sarmenti, cannucce, scroppi, ginestre secche e verdi) in guisa che la città pare vada a fuoco. Una serata efferata dai bagliori rosso-sangue, “scoprifuoco”, in cui tutti escono dalle case per la irrefrenabile voglia di partecipare. Valletti, scudieri, turchi e Gran Turco fumano il sigaro o la pipa alla “smargiassa” … I mulattieri, ebbri e tiranni dalle cavalcature e dalle finestre basse delle case di vico Addone … Primo, unico ed indiscusso modo di essere attori, esibitori di una malcelata potenza, la “marziale”, maschilista traversata nella città, despoti dell’aria e del vino, della nebbia di fumo, corsari della montagna penetrati per una sera nella città, con nave, carro, gualdrappe e finimenti, con pezze di colore e turbanti. Sono i diavoli del grano e delle biade e con il Gran Turco o Belzebù.
Scorreggioni e sguaiati, corrucciati e taciturni, a volte agitati, irriguardosi e maliziosi, turbano e spaventano le fanciulle accorse ad ammirarli. Uomini rudi, delle querce e dei faggi, delle cerze, che scendono da Sellata, Cerreta, Faggeta e Pallareta, per infliggere strappi alle briglie ed alle sete.
È quindi desumibile dal fracasso, dalle torce, dagli spari, dalle foschie iniettate da vividi bagliori, dai volti tesi, dalla prepotente energia dei gesti e dalle braccia nude, dall’energumeno globale dei petti e delle figure, dai muscoli contratti, dalle connotazioni somatiche, dagli sguardi truci, dagli zigomi sporgenti e facce prognate, una rassegna della esibizione semita degli uomini di fatica, i mulattieri dell’Arioso, Montocchio e Montocchino, Trinità Sicilia, la carica contestatoria, la boria, la grinta spavalda di quelli delle boscaglie, per vicoli e grondaie, la fuliggine dei comignoli, nel tripudio, ed ingoiano fumo di legna e tabacco, brandiscono fiaschi e spade, gustano, fiutano ed aspirano odori, quello dei cavalli, alito caldo nella macerazione dei pipli di ginestre.
Le finestre hanno inorridito pel fumo e pel rumore all’avventura di una notte di mezza estate, tutta percorsa dal trotto dei cavalli che annusano, n arici dilatate ed umide, le froge ardite, l’odore del caseggiato, gli incendi appiccati dai giannizzeri. Sono gli Unni delle coste della Gaveta, gli uiguri di Marruccaro, i selgiuchidi di Botte, i kazaki ed i ciuvasci di Rifreddo e l’Agatone, di Dragonara. Le orde hanno invaso la città.
I Jack Palance di zigomi spinti ed occhi obliqui come i teschi dei monasteri tibetani, mongoli dal pallore verde-oliva nella serata del 29 Maggio, erano gli esponenti di quello che fu l’impero delle campagne, quello che rimane dell’esercito ottomano che batteva i terreni con zapponi e vanghe, abitanti delle sterpaglie della Tiera, di Cardillo e di Pian di Zucchero. Eurasia di Potenza. Grinta e comportamento delle steppe. Hanno i volti scolpiti dai venti siberiani di Pierfaone. Sgozzatori di pecore ed agnelli, scannatori di maiali, massacratori di polli e conigli.
Bestemmiano come turchi, fumano come turchi, siedono alla turca, sono teste di turco che fanno da capro espiatorio e bersaglio nei tirassegno.
Ma i turchi che avanzano in direzione della cattedrale sono nelle aspettative della città e rappresentano uno dei suoi aspetti freudiani: perché ogni 29 maggio dopo l’imbrunire, le strade ed i vicoli sono interessati dal rumore, dagli squilli di tromba, dal rullo dei tamburi, dei timpani, fusti in legno e membrane in pelle, dalla grancassa e dagli strumenti a fiato. La gente si riversa nelle vie e nelle piazze, balconi gremiti, ad ammirarli.
«Dalla Bufata, Isca, Verderuolo di Cerreta, da Malvaccaro, dai Fondi Tiera-Lavangoni, Gallitello, dai Cugni dell’Orso e della Corte dalle difese delli Foj, dai Paschi Macchitella, sono mobilitati per questa confluenza di rabbiose scimitarre».
Dalle Masserie ai Molignani, del Monaco, Ciciliana, alla Macchia della Lantone, della Fontana di Torretta, dai Valloni di Lemma e di Maccarone, dagli scoscesi pascoli Cappellazzi, Poggio d’oro, Isca del Pioppo, Sferra Cavalli, da Colascuro, Fontanili, Iscasecca, Ciciniello, da Chiancali, le contrade agresti della vasta topografia della Fiaba arcaica, hanno attraversato la grande Muraglia. Non vi sono più Khan sui troni delle terre, la caduta di Potenza traspare dalle note di Chopin.
Non credo valga più la pena di arrovellarsi sulla veridicità storica, quanto invece su quella antropologica, ancora del tutto inesplorata.
La storia ci insegna, come la festa vada celebrata senza infingimenti o alterazioni, bensì scrutata e ripresa dal suo angolo popolare, sacro e nazionale e nella sua caratterialità antropologica, compito non facile per chi non sa di antropologia, senza trascurare gli altri suoi aspetti innovativi, di mode, usi, luoghi o territorio e società.
È vero, è dalla storia che abbiamo recepito vicende, culture, fatti e trucchi per resistere al tempo, alle contaminazioni, nel culto della fede e della memoria, rispetto alle generazioni sopravvenute, spesso superficiali ed esibizioniste, dimostrando come il tempo non sia affatto quella entità plasmabile e da violentare a nostro piacimento, bensì inesorabilmente omogenea ed uniforme che le macchine e gli strumenti ideati dal progresso, la volontà di produzione degli uomini, hanno cercato di restituire, nella sua integrità, alle nostre attente rievocazioni. Specie quando scopriamo come il tempo muti con il mutare dei suoi livelli e criteri di misurazione, d’impiego e di consumo …
Del resto Jacques Le Goff, a proposito del medioevo, ci ha indicato quando il “tempo della chiesa”, fosse diverso, nel suo uso, nella sua struttura e nella sua rievocazione, dal “tempo del mercante”.
Sono gli antropologi a ricordarci come le categorie della tradizione, del passato e della mentalità, siano inseparabili tra di loro e come l’una vada ripensata sempre in correlazione con le altre, scevre da apporti artificiosi o estranei alla nostra cultura, per farne arredo sofisticato alla eccessiva ridondanza di un fatto spettacolare.
In verità, il tempo dovrebbe scorrere attraverso le sue rievocazioni, senza compromettere l’autenticità e la libertà della memoria.
È per questo che, l’aver inflazionato una manifestazione, che avrebbe dovuto, malgrado i molti decenni trascorsi, far risaltare la sua autenticità, senza toni, simboli e metafore importati da altre comunità, ed avrebbe dovuto far emergere significati ed aspetti connessi ai dati antropologici che in essa sono da far riesumare e valorizzare: il grottesco di alcune figure, la partecipazione dei mulattieri, i turcomanni delle campagne in catene, truci e minacciosi, l’aerostato descritto da Cesare Malpica nel suo “Turchi per aria”, diario di viaggio, 1847, la campana che rintocca sulla coffa della nave, la goffaggine, la baldoria ed il burlesco, le allegorie sociali ed il senso di rivolta contro il conformismo ed il potere, ecc. ecc., restituendo la parata dei turchi alla sua laicità maschilista, alle voci cavernose, ai petti villosi, ai fiaschi di vino branditi sulle cavalcature, ai fumi di pipe e tabacco, al sudore di omaccioni con barbe e turbanti, all’acre odore di membra in sudore, ai volti prognati, ai fischi ed agli scuriazzi … infine all’afflato poetico.
Ma ognuno che ne parla e ne scrive è chiuso nel suo orgoglio talebano e non si accinge a citare o a considerare quanto gli altri di buona cultura da decenni vanno scrivendo, specie quando vengono adottati validi e stimolanti brevetti come quello di Francesco Cappiello e Raffaele Riviello.
Ci appare infatti, opportuna una riedizione, alla guisa di come Garcia Lorca descrive qualche festa sacra della sua terra, rilevandone gli splendori, le tinte sgargianti di stoffe e fiori, le statue dei santi …
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