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IN una lunga intervista rilasciata qualche anno fa a Tonio Acito e Cristina Ventura, Giacinto Padula raccontò la storia della Pasta Padula e del suo storico stabilimento. Si comincia con una domanda legata ad un particolare “metodo” di conservazione del grano.
Ne pubblichiamo ampi stralci, in omaggio ad una figura tanto significativa per la città.
E il fazzoletto rosso dove mettevi il grano lo conservi ancora?
«I diversi colori dei fazzoletti, distinguevano le varie tipologie di grano. Singolare era il modo di fare il nodo, vorrei mostrarvelo. Ho qui un fazzoletto pulito, bello grande. Lo si apre, al centro si pone il mucchietto di grano, poi si raccolgono i quattro lembi tra pollice ed indice; l’ultimo lembo si allunga, si gira intorno e si usa per fare il nodo. Il grano, in questo modo non usciva più e quello era il campione che l’agricoltore consegnava».
La vostra esperienza molitoria e pastaria ha inizio presso il Mulino Alvino; perché successivamente decidete di fare il vostro Stabilimento?
«Nel 1935 eravamo presso l’opificio Alvino di cui avevamo in fitto mulino e pastificio; era una struttura molto bella e perfetta per l’epoca: ricordo bene i disegni dell’impianto molitorio della Buhler del 1935. Mentre eravamo lì, scoppiò la guerra; nel frattempo, papà e zio avevano acquistato il vecchio mulino e pastificio di Lamacchia-Tortorelli all’inizio della salita di via Lucana. I vecchi proprietari avevano litigato tra loro, lasciando il mulino in una condizione di abbandono; per mio padre e mio zio fu facile acquistarlo. Senonchè, la guerra ne impedì l’uso perché in quel periodo il grano veniva fornito ai mulini in quantità razionate per la macinazione e la produzione della pasta, che era pure controllata. La quantità ricevuta, però, non era sufficiente per entrambi gli impianti. Allora, bloccammo quello di via Lucana e continuammo a lavorare solo al Mulino Alvino. Finita la guerra, si pensò di fare il nuovo mulino in via Lucana. Papà e zio decisero, quindi, di avviare l’attività in via Lucana, dove occorreva fare il nuovo mulino mentre il pastificio era dotato di macchine idrauliche».
Nel dopoguerra, tuo padre Giovanni e tuo zio Emanuele decidono di partire con la produzione.
«Decidono di realizzare il nuovo mulino. Un giorno, durante il montaggio, il montatore che era pugliese consigliò di rivolgersi al mulino Tamma di Bari. Papà che per attività commerciali conosceva benissimo molti mulini delle Puglie, mi incaricò di andare lì e di chiedere di don Francesco. Don Francesco, sentendo il mio cognome volle sapere se ero figlio di Giovanni o Emanuele. Quando dissi il nome di mio padre Giovanni, esplose in una bestemmia violenta, brutale. Poi si calmò e disse: “Sei figlio a Giovannino?”; gli risposi di sì ed egli continuò: “Allora prenditi tutto il mulino, te lo puoi portare “. In quel momento, ricordo di essermi sentito rinascere».
Mentre gli altri facevano quantità, voi facevate quella qualità che vi premiava e vi faceva andare avanti.
«Sì, andavamo avanti, tant’è vero che siamo arrivati all’esportazione: negli anni ’80-’90 approdiamo in America. Probabilmente davamo fastidio perché conquistavamo i mercati».
Una volta mi hai raccontato di aver fatto un giro nello stabilimento o con Pietro Barilla o con qualcun altro, però l’hai “mandato per i campi”. Raccontaci.
Sì, era quello di Parma che poi è stato arrestato, Calisto Tanzi. Tanzi sapeva che la Barilla doveva acquistare e voleva intromettersi lui, delinquente. Eravamo in un posto del pastificio, nell’interrato, quando mi chiese: “Sig. Padula, è lei uno dei soci?”. “Si”, risposi. “Mi dica, quant’è il minimo che volete perché io per lei, poi, un bel regalo…”. Io mi allontanai dicendo una bella parolaccia; sì, lo mandai a quel paese in maniera brutale e di corsa andai da mio fratello che gestiva questi incontri per dirgli quello che era accaduto e cosa mi era stato detto. Mi chiese cosa gli avevo risposto e gli dissi che l’avevo semplicemente mandato a quel paese nella maniera più sonora possibile”.
Eravate sempre Giacinto Padula & Figli?
«Sì, il rappresentante americano (ma di origine italiana), mi mandò una volta una reclamistica, da lui voluta, in cui c’erano due individui che uscendo dal loro ufficio in senso contrario all’ora di pranzo, correvano e si salutavano rapidamente dicendosi “ciao, ciao”. Ma uno dei due, poi, si girava e aggiungeva: “buon appetito, però, con Pasta Padula”. Una reclamistica che mi ha colpito molto perché in inglese aveva una bella musicalità; alla fine esplodeva col nome Padula, l’unica parola che si riusciva a riconoscere in lingua italiana».
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