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POTENZA – Quando gli agenti della Forestale sono arrivati negli uffici dei “Bancanterra”, questo il soprannome di Antonio (79) e Maurizio Pepe (45), hanno scoperto anche due buste piene di assegni. In totale una decina. Validi a tutti gli effetti ma ancora non incassati. Di qui il sospetto che oltre all’autodemolizione ci fosse anche un giro di prestiti che ruotava attorno alla loro ditta. Più o meno abusivo.
Ci sarebbero già i verbali di diversi dei “clienti” dello “scasso” di Potenza nell’inchiesta condotta dagli investigatori al comando del primo dirigente Angelo Vita. Inclusi quelli che risultano aver emesso gli assegni sequestrati nel 2013. Se si trattasse di titoli a copertura di debiti per prestazioni regolarmente fatturate o a garanzia di qualche strana forma di finanziamento, non è ancora chiaro. Anche perché dal quadro emerso dalle indagini risulta che gran parte delle attività dell’Autodemolizione Antonio Pepe avvenisse “a nero”. Per questo non è facile ricostruire l’esatta contabilità in entrata e uscita.
Il capitolo sugli assegni andrebbe ad aggiungersi agli altri per cui giovedì mattina i due imprenditori potentini, padre e figlio, sono finiti ai domiciliari. Con le accuse di traffico illecito di rifiuti, falso e ricettazione.
Mentre per 5 dipendenti è stato disposto l’obbligo di firma: Michele Romano (38); Giovambattista Calace (43); Sergio Ligrani (37); Mario Di Tolla (28) e Vito Ramunno (48).
A disporre la misura cautelare nei loro confronti è stato il gip del capoluogo, che ha ordinato anche il sequestro dell’intero «compendio aziendale» della ditta. Inclusi «6 mezzi meccanici utilizzati per l’attività di recupero di rifiuti metallici».
Secondo gli inquirenti della Direzione distrettuale antimafia di Potenza, competente per i reati ambientali più gravi, i Pepe avrebbero smerciato veri e propri rifiuti spacciandoli per materia prima riciclata. Falsificando bolle e certificati per nascondere quanto avveniva realmente nello stabilimento. E continuare a fare affari con alcuni personaggi, di nazionalità rumena, che avrebbero conferito «metalli ad alto valore aggiunto» di dubbia provenienza. Rame in particolare. Ricavato dai cavi dell’Enel e delle Ferrovie rubati qua e là.
E’ stato proprio seguendo questa “banda” che gli investigatori del Corpo forestale dello Stato sono arrivati in via della Tecnica. Ma le accuse nei loro confronti sono finite in un altro fascicolo, su cui i pm guidati dal procuratore Luigi Gay sono ancora al lavoro.
Imprenditori e dipendenti sono accusati anche per la «predisposizione reiterata e continuata di falsi formulari di identificazione dei rifiuti e falsi documenti di trasporto».
«L’attività posta in essere dagli indagati – spiega il comunicato diffuso ieri mattina in Procura – è stata accertata nel periodo compreso tra ottobre e marzo 2014». Per un giro di migliaia di tonnellate completamente in nero, che ha già portato a sanzioni amministrative per oltre 1 milione di euro.
Quindi «commercio di rifiuti costituiti da materiale ferroso e da altro materiale pregiato». Come rame, ottone e alluminio. Ma anche «la vendita di pezzi di ricambio provenienti dalla demolizione delle autovetture».
«Nel corso delle indagini si accertava che i pezzi di ricambio venivano accantonati anche fuori dal sito aziendale per essere commercializzati in nero, benche risultasse agli atti il loro trattamento e la loro vendita come materiale bonificato».
Perciò «l’ingresso nello stabilimento di rifiuti senza alcuna tracciabilità» sarebbe servito per compensare l’uscita dei pezzi rivenduti sotto banco. Con l’aggiunta di parti che di norma andrebbero separate e smaltite diversamente. Come i sedili, che gli agenti della forestale avrebbero riconosciuto in alcune delle “balle” analizzate.
Il risultato è che a uscire dall’impianto più che materia prima di risulta, sarebbe stato metallo “sporco” indirizzato perlopiù alle Ferriere sud. Col rischio che la combustione di sostanze diverse diffondesse veleni nell’aria. In particolare diossina. Proprio come accertato durante le indagini che la scorsa estate hanno portato al sequestro parziale dell’impianto siderurgico.
«Quanto ai rifiuti ferrosi – spiegano dalla Procura – essi venivano commercializzati con la totale elusione delle norme in materia, attraverso la falsa attestazione del rispetto delle procedure previste per il conferimento e la trasformazione di un rifiuto e rottame ferroso e quindi merce».
Idem per il prelievo del rame all’interno dei cavi elettrici “scippati” alla rete Enel, che proprio in quanto rubati venivano lavorati senza andare troppo per il sottile.
Gli investigatori stimano in «circa 3mila i conferimenti abusivi accertati» nei sei mesi presi in esame, grazie anche alle intercettazioni telefoniche e ai filmati delle telecamere nascoste piazzate nello stabilimento. Inoltre aggiungono che «delle circa 500 vetture da rottamare e trovate nell’azienda solo 29 sono risultate regolarmente trattate». E una volta entrati hanno scoperto 276 targhe «appartenenti ad altrettanti veicoli di cui non risulta traccia ma che risulterebbero circolanti anche se solo formalmente».
Nei prossimi giorni verranno fissati gli interrogatori di garanzia.
l.amato@luedi.it
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