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ANTONIO Polito è giornalista intelligente, scrive una prosa spedita e razionale. Da qualche tempo immerge la penna nelle pieghe dell’avventura renziana cercando di svelarne intrecci e contraddizioni. Nell’ editoriale sul “Corriere” egli non fa mistero infatti di vicende e situazioni diffuse che testimoniano il ritardo e le ombre che politica e maneggi gettano sul costume politico meridionale. Ciò lo induce a chiedersi se il Sud, prisma dalle controverse illuminazioni, non sia rimasto fuori dalla “rivoluzione” renziana per una congiura di lingua, pregiudizio antropologico, leggerezza e insostenibilità culturale. Per quel “situazionismo” che, come scrive Claudio Giunta nel suo brillante libretto “Essere Matteo Renzi”, rappresenta il punto di rappresentazione di un’azione politica tutta immersa nella postura orizzontale della contemporaneità: un impasto di neofuturismo, molto orientato verso l’avvenire, intriso di velocità e di efficienza, nutrito di soggezioni tecnometaforiche, ostile fondamentalmente verso le memorie e le figure fossili del passato. La turbopolitica è divenuta così il mantra della nuova stagione, salutata con interesse, come Giunta fa, assolvendo Renzi dai tanti lapsus, incidenti retorici, ingenue e spericolate accelerazioni e incursioni, piccole e medie arroganze.
Condivido molto questa introspezione nel renzismo come condizione virale di una stagione che se, per un verso, sta uccidendo totem antichi, conservatorismi e ipocrisie felpati, per un altro incoraggia fregolismi, fughe in avanti, neoarroganze opposte a superstiti e tristi veteroarroganze. Cose già viste.
Per queste ragioni il renzismo non potrebbe essere interpretato come una nuova religione civile, cioè come quell’impetuosa weltanshauung che, partendo dall’alto, dovrebbe guidare, la nuova “rivoluzione meridionale”. Per la sua natura organica tutta collocata nel “farsi” e nell’ “accadere”, il renzismo non potrebbe darsi la missione di rinnovare il Mezzogiorno, i suoi costumi, le sue infelici fratture fra riti arcaici e ambigue modernità, se non incarnandosi in forme e in azioni che trasformino l’accadere in progetti di trasformazione della realtà pura e dura. Quella che conosciamo e soffriamo ogni giorno. “Matera per esempio”, neocapitale della cultura in divenire finora allo stato di mera promessa e di volontarismo etico, se dovesse usare il paradigma renziano, quello che ci siamo sforzati di proporre senza risultati, non avrebbe che da cogliere l’occasione elettorale per rinnovare quadri politici, concettuali, programmatici per adeguarli ad un impegno che non potrebbe essere assolto riproponendo l’esistente sic et simpliciter. Come ci si avvia a fare con operazioni di accatto e in una condizione di grave miopia progettuale.
L’unica “operazione renziana”, nel senso che ormai deve essere attribuito ad un termine che evoca innovazione e turbopolitica, non potrebbe che essere a Matera quella che, scomponendo vecchie ed ormai inesistenti alleanze (centrosinistra e centrodestra si sono dissolti in una nuova chimica civile) si proponga di ricostruire una prospettiva in una città divisa, frantumata, degenerata in mille opzioni, governata da interessi molecolari. Unità intorno a un progetto vero che rimetta insieme natura, storia e futuro della città e lo affidi in mani adeguate. Operazione che non potrebbe essere regolata da demiurghi improvvisati ma da un collegio di energie e intelligenze iscritto nella storia e nella cultura di una città che ha vinto soprattutto per i suoi geni.
Chissà se Renzi con le sue metafore e con il vento che si porta dietro arriverà mai a Matera.
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