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POTENZA – Avevano soppiantato i vecchi clan, decimati da omicidi e arresti. Così anche i figli dei boss si rifornivano da loro. Ed è proprio seguendone uno che i carabinieri hanno scoperto tutto.
E’ di 29 arresti, 20 in carcere e 9 ai domiciliari, più un obbligo di firma il bilancio dell’operazione Myriam. Ieri mattina è scattato il blitz dei militari della compagnia di Melfi e del Reparto operativo dei carabinieri di Potenza. Gli elicotteri hanno sorvolato a lungo la cittadina federiciana, Rionero e Rapolla. Ma i lampeggianti si sono accesi anche a San Severo, Andria e Cerignola dove sono stati localizzati i canali di rifornimento della droga del Vulture.
Le indagini sono state coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia del capoluogo, guidata dal procuratore Luigi Gay e dal pm Francesco Basentini.
Questa volta a finire nel mirino sono state: «due articolate organizzazioni malavitose, a carattere quasi interamente familiare, ma con propaggini interregionali, formata infatti da soggetti di origini lucane ma con complicità di personaggi pugliesi».
A guidarle due melfitani: Antonio Gaudiosi (34), e Teodoro Gabriele Barbetta (37) considerato «un esponente di spicco della criminalità organizzata operante nell’area del “Vulture-melfese”». Nonostante l’“alibi” di una rivendita d’auto.
Per il gip Amerigo Palma, che ha firmato l’ordinanza di misure cautelari appena eseguita, Gaudiosi dirigeva «l’attività della societas». Mentre la moglie Maria Patanella (30) si sarebbe occupata «della conservazione della sostanza all’interno della sua abitazione e talora del frazionamento delle dosi da vendere». Con la collaborazione del cognato Antonio Patanella (26), che avrebbe presidiato «il circolo Tony Star, luogo deputato insieme alla predetta abitazione in via principale alle consegne della sostanze». Ricevendo «le consegne dei fornitori in assenza di Gaudiosi» e fornendogli «supporto logistico». Assieme a Mattia Viglioglia (20), che all’occasione lo avrebbe avvertito dei movimenti delle forze dell’ordine e aiutato nel recupero crediti dai suoi “clienti” abituali. E col contributo di Michele Gliaschera (32).
Stesso discorso per Teodoro Barbetta, supportato dalla moglie Carmelina Maio (33) e dal fratello Rocco (43), che in sua assenza si occupavano di «custodire le sostanze stupefacenti (…) e di consegnarle ad eventuali acquirenti». Oltre che da Mauro Savino, (25) eletto al rango di suo «alter ego» anche «per svolgere trattative e ritirare partite di sostanze stupefacente». E da Alfredo Mari (24), alias “junior” o “Coriolano”, considerato il «punto di riferimento per i giovani della città federiciana interessati all’acquisto di sostanze stupefacenti». Ma anche «anello di congiunzione tra il sodalizio capeggiato dal Gaudiosi e quello capeggiato da Teodoro Barbetta».
Proprio Mari, secondo gli inquirenti, si sarebbe avvalso anche dell’«aiuto» di minorenni «per piazzare la droga all’interno degli istituti scolastici». Riceveva gli ordini raccolti durante le prime ore di lezione dal suo giovanissimo “infiltrato” e recapitava «quanto richiesto durante la ricreazione». Oppure dopo incontrando gli studenti all’uscita da scuola e gli altri suoi “clienti” nella villa comunale di Melfi. Con la complicità di Manuel Morano (19), Michele Tetta (21)e Pasquale Mancino (22).
Barbetta avrebbe avuto anche dei pusher distribuiti nei paesi vicini, come Fiorino Spadone (37) e Mirco Carriero (29) a Rapolla, e Tommaso Pietragalla (31) a Rionero.
I militari hanno riscontrato che le organizzazioni avevano anche «disponibilità di armi e munizioni, rinvenute e sequestrate (…), utilizzate in alcuni casi per minacciare, in caso di morosità, i loro cessionari (…) e lasciate in disponibilità di soggetti di minore età utilizzati anche nell’illecita attività di cessione dello stupefacente».
Il giro d’affari messo in piedi da Gaudiosi e Barbetta sarebbe stato notevole: un mercato quotidiano «con una sistematicità monitorata dagli inquirenti sin da marzo del 2013, avente ad oggetto vari tipi di sostanza stupefacente opportunamente celata in prossimità dei luoghi non immediatamente riconducibili alle persone degli indagati».
L’inchiesta era partita dall’arresto a gennaio del 2013, dei fratelli Umberto e Andrea Di Muro, figli del più noto Angelo di recente condannato a 30 anni per l’omicidio di Marco Ugo Cassotta. I due erano stati trovati con 400 grammi di hashish, per questo i militari hanno deciso di piazzare delle telecamere davanti la loro abitazione e li hanno seguiti fino al circolo “Tony Star” «riconducibile a Gaudiosi».
Poi hanno registrato alcuni contatti con Mari, così sono risaliti al “giro” di Barbetta «ufficialmente gestore di una rivendita di autoveicoli usati, ma di fatto quotidianamente dedito ad altra illecita e più lucrosa attività». E nella rete è finito anche Alessandro Cassotta (24), figlio dell’ultimo morto dei faida tra i clan omonimo e i rivali Di Muro-Delli Gatti, e il cugino Antonio (21), orfano di proprio di Marco Ugo (già arrestato per droga a ottobre dell’anno scorso).
Infine è venuto il turno dei fornitori. Da Cerignola, Andria e San Severo. Ma anche un’altra giovane-vecchia conoscenza degli investigatori: Aniello alias “Daniele” Barbetta (23), e il suo compaesano Sabatino Tozzi (41). Stesso cognome ma nessuna parentela con Teodoro. E un arresto eclatante a luglio dell’anno scorso, quando da Roma è arrivato il fermo per un tentato sequestro di persona di 2 anni prima. Avrebbe cercato di rapire “il cassiere di Mokbel” il giovane rampollo del Vulture. Per mettere le mani sul tesoro della maxi-truffa Telecom Sparkle- Fastweb. Proprio come quelli che l’anno scorso hanno finito per ucciderlo.
Assieme a Teodoro Barbetta è stata arrestata anche una giovane donna di Foggia con origini rumene, Rodica Lungu (24), che avrebbe spacciato droga per lui con la convivente. Ma a un certo punto non avrebbe avuto i soldi da restituirgli, e da complice per gli investigatori è diventata vittima di un tentativo di estorsione.
«Minacciava di ucciderle – scrive il gip Amerigo Palma – di farle picchiare da suoi conoscenti e di far pestare da altre persone di sua fiducia il compagno di – omissis (la convivente, ndr) – che egli sapeva essere recluso in una qualche casa circondariale». Nel caso in cui non avessero pagato subito. L’alternativa era «farle prostituire e recuperare i profitti attesi dalla sostanza ceduta alle due donne dai proventi del loro meretricio».
l.amato@luedi.it
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