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«Chiama, chiama. E chiama!».
Mariano mi incalzava, da “padre” della cronaca giudiziaria della redazione. Si era a lungo occupato delle ruberie del dopoterremoto nell’area del cratere. Concetto geografico-industriale difficile da capire per chi sulla cartina non trovava un vulcano oltre il Sele.
Per anni il giornalismo d’inchiesta che non sconfinasse nella cronaca nera era stato quello. Era passato un decennio. Qualche settimana dopo l’arresto di Mario Chiesa tre pubblici ministeri della Procura di Salerno partirono per Milano. Non sapevamo ancora che anche per noi tutto stava per cambiare.
Chiamai. «Luigi, novità?»
«Eh, l’abbiamo arrestato”
«Nooo!, Ma quando»
«Adesso, adesso»
L’avevano arrestato di pomeriggio. Il pm me lo disse a telefono. Un pezzo grosso del Psi.
Era insolito, anzi non era mai successo, un arresto di pomeriggio. Di solito le manette scattavano all’alba. Mi misi a scrivere. Mariano aveva fiutato.
Il giorno dopo capocronaca e locandine affisse in tutta la città. I nostri concorrenti non avevano avuto lo stesso scrupolo. Un notizione. In esclusiva.
Già molti erano finiti in galera. Avevamo una specie di agenda, prima o poi tutte le teste sarebbero state ghigliottinate. Chi mancava all’appello?
Il nostro raccontare cambiò. Nella sintassi, nell’uso degli aggettivi. I nostri miti erano Luca Fazzo e Piero Colaprico. Inventarono la parola Tangentopoli.
Nei loro pezzi, a doppia firma, sentivamo gracchiare la radio degli sbirri. A Sud ci piaceva leggere Bolzoni e Sergi.
Tutto ciò che ci piaceva era fuori dalle regole. Con la polizia andava bene. Le donne potevano passare per agenti in borghese. Nell’Arma ancora non erano ammesse.
Mangiavamo pizza fino alle due di notte, con gli ordini d’arresto sotto il piatto. Poi c’era il concentramento in un commissariato distaccato. Dalla questura partivano le pantere.
Noi, sedute dietro, a bordo. Quanti armadi ho visto aprire, perquisizioni anche nei cassetti delle mutande. Sorpresi nel sonno, in pigiama. Il tempo di farli vestire, e via, in carcere.
Cornetto all’alba e si ricominciava. Le nostre fonti si infittirono, in ogni buco dei palazzi c’era una gola profonda, non avevamo più bisogno di chiedere. Bastava uno sguardo, nei corridoi del tribunale. I pubblici ministeri correvano con i consulenti a seguito. Fecero fortuna architetti e ingegneri. Quelli che non si erano infilati negli appalti sporchi, passarono al servizio delle Procure.
«Dove stai andando?»
«A rifarmi la carta d’identità al Comune»
E io capivo.
Dal telefono a gettoni davanti alla bouvette del tribunale chiamavo il fotografo in redazione. «Michele, corri al Comune». Guai a pubblicare in estate una foto con i cappotti.
Il terremoto giudiziario illustrato. Non c’era un pezzo senza la foto delle perquisizioni, dei faldoni caricati sui carrelli, degli impiegati sgomenti. Noi, bastardi, anticipavamo le paure. Stress da finale di articolo. C’erano sempre altri arresti imminenti. Sotto a chi tocca.
Toccò anche al sindaco della città. In manette, tra due agenti con la scritta “polizia” sulle casacche. In prima pagina. Poi morì. Oggi penso che non si sia mai ripreso da quel dolore. E finirono il carcere il rettore dell’università, i ministri e i deputati, i cortigiani del pentapartito, i cassieri dei partiti, i segretari di sezione, decine di imprenditori e faccendieri e i compassi d’oro. Cominciammo a chiamarli così, dal primo che finì in cella.
Era un ingegnere molto distinto. Sarebbe morto di cancro, col processo ancora in corso.
Salerno fu la seconda città d’Italia, dopo Milano, dove la Procura si mise al lavoro alla ricerca di mazzette. Era il 1992. E noi, giovani cronisti, eravamo molto stronzi. Giornate senza pausa, schierati, senza pietà. Le inchieste per corruzione si unirono a quelle per camorra.
Un intreccio fatale. Avevamo sete di sangue, pronti ad azzannare carogne ancora calde. Parlavo a telefono con i pentiti come con le mie amiche. Il servizio centrale di protezione mi faceva un baffo.
Spavalda, rincorrevo storie di malavita. Parlare con gli assassini mi trasmetteva freddezza. Ma anche portare nella mia borsa la pistola del capitano amico. Del resto c’erano colleghi che la pistola la mettevano sul tavolo del giornale. Eravamo tutti uguali, sbirri, giornalisti e delinquenti.
I meravigliosi anni Ottanta avevano avuto un prezzo. Il conto cominciammo a pagarlo negli anni Novanta. Il nostro divertimento, persino i nostri stipendi, erano frutto di provenienza illecita.
Gli imprenditori vincevano gli appalti, pagavano mazzette, si finanziavano i giornali.
Le copie aumentavano, ma il sistema economico si inciampò. Il più grande giornale che aveva sfidato il monopolio del Mattino e dal quale sarebbero usciti tra i più influenti giornalisti italiani di oggi, era nient’altro che la bacinella nella quale confluivano le tangenti socialiste. Cambiare giornale non servì. Una sera il mo amico mi disse: «Guarda che tra due giorni arresto il tuo editore».
Cosa dovevo fare? Dirlo al direttore? Forse volle mettermi alla prova. Tenni la notizia per me. Due giorni dopo l’arrestarono. Noi finimmo tutti in cassa integrazione. Lui sarebbe stato assolto. Io decisi di partire. Nulla mi avrebbe più turbato.
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