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TRICARICO – C’è una tendenza sempre più diffusa, non solo nell’ambito della ricerca, a pensare al paesaggio come a una risorsa, anche immateriale. È quell’idea per cui il patrimonio culturale si esprime anche nelle tracce fisiche che ci troviamo attorno. «E che messe insieme – spiega Antonio Graziadei – fanno un patrimonio collettivo».
Gli Orti Saraceni di Tricarico sono esattamente quel pezzo di territorio in cui pratiche e consuetudini, stratificate nel tempo, hanno costruito un blocco di sapere, non per forza codificato, e che oggi sembra assolutamente attuale.

Lucano, architetto, studi anche in archeologia, e una vocazione alla ricerca indirizzata sempre al patrimonio comune, Graziadei ha cominciato a occuparsi degli Orti Saraceni di Tricarico con la tesi di laurea circa dodici anni fa. Fu Pietro Laureano, architetto responsabile dell’iscrizione di Matera nel patrimonio Unesco, a suggerire quell’approfondimento. Da lì non ha più abbandonato un percorso di scoperta che lo ha portato, qualche mese fa, a essere ospite di una importante conferenza internazionale a Valencia.

«Il paesaggio è la manifestazione materiale di conoscenze e pratiche, di patrimonio immateriale», spiega Graziadei. Per questo parlare degli Orti Saraceni di Tricarico significa anche provare a recuperare un patrimonio collettivo fatto di saperi e risorse. E non disperderlo.

Gli Orti Saraceni sono qualcosa in più di un particolare sistema di irrigazione e gestione delle acque, che racconta della lucidità della tradizione contadina e della presenza degli arabi in Basilicata – su cui però è molto difficile avere una datazione precisa.

Sono tre le tipologie di sistemi di irrigazione e canalizzazione delle acque, tutti terrazzamenti. Il primo tipo, più a ridosso del paese, è utilizzato per colture che non hanno bisogno di molta acqua, come i carciofi, le fave, la frutta. Nella zona “dei Lavandari” il sistema utilizzato sfrutta la corsa del torrente, ne divide il flusso, incanalando le acque sul terreno: è qui che crescono coltivazioni bisognose di acqua, diversi tipi di verdura, per esempio.

C’è poi un terzo tipo di terrazzamento con muri a secco: sfrutta le acque che sgorgano dalla roccia, lasciando che i microflussi si raccolgano da diverse direzioni nelle cisterne.
Un misto di abilità e intuizione, che rimanda immediatamente alla saggezza della tradizione. Prassi, esperienza e pratica hanno costruito nei secoli un patrimonio di conoscenza e tecnica, non per forza dettato dalla consapevolezza del dato scientifico.

«Il dato materiale, il manufatto, che è frutto di conoscenze tradizionali stratificate nel tempo, ha dato forma al patrimonio culturale – spiega Graziadei – Approcciarsi con delicatezza al paesaggio, così, significa dare significato a un’eredita».

Il paesaggio è lo specchio della comunità che lo abita. E oggi che ci preoccupiamo con sempre maggiore consapevolezza (e forse paura) della sostenibilità del costruire l’ambiente attorno, è importante recuperare un patrimonio già esistente di buone pratiche. Significa trovare le tracce che la comunità ha lasciato nel suo passaggio: in che modo è riuscita a prendersi cura dell’ambiente? In che modo ha tutelato la vita agricola? Come è cresciuto l’ambiente urbano?

«A Tricarico, con gli Orti Saraceni, per esempio, entrano in gioco tanti aspetti ecologici. Il terrazzamento viene scelto, per esempio, per mantenere umida la terra, lì dove c’è bisogno di evitare lo sdrucciolamento. Ma vale anche per le acque: senza la continua pulizia delle vasche, l’agricoltore sa bene che impiegheranno poco a intasarsi e le cisterne a quel punto non saranno più utilizzabili.

Le buone pratiche evitano così il collasso dei suoli. Su grande scala, il principio di cura e prevenzione è lo stesso che regola le grandi catastrofi».

Nel tempo queste soluzioni sono state progressivamente abbandonate; oggi sono utilizzate solo in parte. La vegetazione è naturalmente cresciuta, in alcuni casi ha preso il sopravvento, e sono state abbandonate anche le colture.

E’ interessante però scoprire che in quel paesaggio sono racchiusi anche valori legati alle relazioni della comunità. Non c’è un vero e proprio regolamento che norma l’utilizzo e l’accesso ai flussi d’acqua canalizzati. Salvo qualche richiamo in antichi documenti, prevale soprattutto la consuetudine tramandata: se a qualcuno serve l’accesso a una cisterna per raggiungere il proprio podere, lo si concede.

«È un mondo che man mano è andato scomparendo con l’industrializzazione dei processi agricoli». Ma è questo il punto: «Abbandonando le vecchie pratiche, non abbiamo certo scelto sistemi più consapevoli. L’approccio utilitaristico alle risorse naturali, non solo non ci permette di rispettare il patrimonio, ma a conti fatti è anche poco efficace nei risultati».
Iniziative di promozione, l’attenzione dei grandi gruppi come il Fai e la ricerca continua sono appuntamenti necessari per riavvolgere la comunità attorno al patrimonio pubblico. Magari, attivare così processi di mobilitazione.

«Quello della conservazione del patrimonio immateriale non è un tema semplice. Spesso implica anche consapevolezza rispetto a stili di vita. Prendersi cura di piccoli orti di famiglia, per esempio, è una scelta: si produce cibo, senza impatto ambientale. Ma, soprattutto, si contribuisce a mantenere in vita l’ecosistema locale».

La lezione che arriva da patrimoni locali come gli Orti Saraceni è proprio questa.

C’è anche un aspetto economico: molti prodotti che arrivano da territori di qualità, possono essere inseriti in una catena di promozione legata a turismo, agricoltura, ambiente. È così che il paesaggio diventa un valore aggiunto anche nella produzione del cibo.

Una riflessione che ha attraversato tutto il 2014, anno a cui la FAO ha affidato il tema dell’agricoltura famigliare. E che tornerà anche nell’appuntamento dell’EXPO 2015 di Milano, dedicato proprio all’alimentazione e alla produzione delle risorse alimentari. Tema che in Basilicata può essere sviluppato in diversi angoli del territorio.

Gli Orti Saraceni di Tricarico si inseriscono in questo orizzonte. Sono un’espressione della cultura locale che ha a che fare con il rapporto tra uomo e natura, e tempo. Perché ad addentrarsi anche solo un poco nell’eredità di questo pezzo di paesaggio lucano emerge forte la sensazione che il patrimonio abbia a che fare con le domande sul futuro che oggi ci poniamo.

s.lorusso@luedi.it

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