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LA SENTENZA di primo grado sul caso “Marlane” ha diviso l’opinione pubblica. Da una parte coloro che hanno gridato allo scandalo per l’assoluzione di tutti gli imputati, dall’altra, invece, quelli che sostengono che quelle morti non sono riconducibili al lavoro nella fabbrica di Praia. Il primo round ha dato ragione ai vertici dell’azienda. E per capire le “ragioni” che hanno portato alla sentenza, abbiamo rivolto qualche domanda a Pietro Perugini del foro di Cosenza difensore insieme a Enrico Giarda di Pietro Marzotto e a Licia Polizio noto avvocato penalista di scuola salernitana, anche di recente assurta alle cronache per la difesa di Francesca Pascale in un processo di stalking contro la Bonev. In questo processo difende il direttore dello stabilimento Marlane, Vincenzo Benincasa.
Ci dica in breve, avvocato Perugini, come nasce il caso Marlane e perché si é arrivati a un processo?
«Il processo nasce da una serie di denunce, proposte nel tempo dalle parti offese, circa la possibile causa lavorativa delle malattie tumorali sorte tra alcuni dipendenti dell’azienda. E’ opportuno dire che le indagini avevano prodotto ben due richieste d’archiviazione dei pm del tribunale di Paola, Cuppone e Maiorano. Richieste a cui seguiva l’opposizione delle parti offese e l’ulteriore corso delle indagini e poi del processo».
Le risulta che presso lo stabilimento di Praia lavorassero anche operai Lucani?
«In Marlane, nel corso dei quasi 40 anni di vita aziendale e nei vari passaggi di proprietà, Rivetti, Eni, Marzotto, credo che vi abbiano lavorato dipendenti della Lucania»
Avvocato Polizio, la lettura della sentenza in attesa delle motivazioni, ha dato ragione su tutta la linea alla difesa. Cosa sente di dire a coloro – e non sono pochi – che parlano invece di sentenza ingiusta?
«Ogni sentenza appare ingiusta quando l’esito non soddisfa le pretese di tutte le parti processuali. Di solito ciò non si verifica. Io credo che “ingiustamente” i dipendenti ammalati e i parenti dei dipendenti deceduti siano stati illusi nella errata convinzione che le patologie neoplastiche fossero da attribuire alle sostanze utilizzate nella fabbrica Marlane. E se è vero come è vero che la salute e la vita sono beni primari costituzionalmente tutelati e garantiti non di meno lo è la libertà personale e non si può immaginare di ripristinare un equilibrio rotto da queste tragedie creando altre vittime innocenti. Il mio assistito ad esempio come altri imputati, ha vissuto per anni all’interno della fabbrica insieme a tutti gli altri e come si potrebbe immaginare che volesse utilizzare sostanze cancerogene che avrebbero potuto provocare anche la sua morte? Ebbene per quest’uomo il pubblico ministero aveva chiesto la condanna a ben 8 anni di reclusione !!!! Le sembra giusto?»
Se gli operai non sono deceduti per cause riconducibili alla fabbrica, allora con sono morti?
«Io le posso dire solo ciò che è’ emerso dalla lunghissima e complessa vicenda processuale e cioè che non è stato dimostrato il nesso di casualità tra le sostanze utilizzate dalla Marlane e le patologie che hanno causato malattie e decessi. Il tribunale ha acquisito perizia dalla quale emerge l’assenza nello stabilimento della Marlane delle sostanze cancerogene così come dimostrato dai risultati di dati di laboratorio».
Pensa che l’impianto difensivo possa reggere anche in appello?
«Secondo il mio parere questa sentenza non sarà riformata in appello perché è una sentenza basata su elementi di fatto incontrovertibili che non potranno essere smentiti in secondo grado».
Pensa che presidente del Tribunale di Paola, Domenico Introcaso che è anche presidente della Corte d’Appello di Catanzaro, sia incopatibile cosí come denunciato da alcuni esponenti del M5S?
«Ritengo che ciò non sia un argomento giuridicamente rilevante in ogni caso non e’ di mia competenza».
Un’ultima domanda: secondo lei questo processo è stato in qualche modo condizionato dall’impatto mediatico?
«E’ chiaro che vicende così tragiche hanno ovviamente un grande risalto mediatico come è giusto che sia. Ma la grande professionalità di tutti ha fatto si che il processo si svolgesse nella sua sede naturale e non altrove».
g.rosa@luedi.it
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