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MATERA – Negli ultimi quattro anni non ha mai avuto dubbi: quell’uomo era l’assassino di suo figlio Daniel Iliescu. Ora Marianna deve solo aspettare di poter riportare la salma del suo ragazzo di nuovo in Romania. Per farlo però dovrà aspettare altri cinque anni, come prevede la legge. Un sogno che, però, diventa difficile se non impossibile con un lavoro di domestica a chiamata, un alloggio di fortuna da un’amica e nessun soldo da parte. Nel frattempo porta ogni giorno i fiori sulla sua tomba nel cimitero vecchio. La sentenza della Corte d’Appello che ha confermato l’ergastolo per Domenico Martino, l’uomo accusato di aver ucciso suo figlio il 27 giugno del 2010 in via Gagarin, è una vittoria anche se amara perchè riapre le ferite aperte quella sera, dopo che suo figlio era stato colpito da un colpo di pistola che gli fu fatale. «Giustizia è stata fatta e il suo difensore, l’avvocato Buccico, ha perso – dice, aggiungendo – Sapevo che era stato lui a uccidere mio figlio. Quando lo guardavo durante le udienze, dietro le sbarre, mi faceva paura». A distanza di quattro anni, il lavoro del Nucleo investigativo dei carabinieri ottiene il secondo risultato importante, dopo la prima sentenza in Corte d’Assise nel 2013. Le prove, d’altronde, erano state schiaccianti e frutto di un lavoro che il capitano Michele Basilio e uomini come il luogotenente Vito Rubini avevano svolto con attenzione certosina attraverso controlli dei tabulati telefonici, pedinamenti, analisi con i Ris degli abiti che l’uomo indossava al momento del delitto (dei quali si era sbarazzato lasciandoli, però, nella sua abitazione e sui quali erano state trovate tracce di polvere da sparo, ndr.). Elementi inconfutabili che, insieme alle dichiarazioni di due testimoni, avevano portato al suo arresto tre mesi dopo l’omicidio del giovane rumeno e di Francesco Di Cuia, ucciso perchè presente al momento della lite fatale.
Marianna Iliescu, oggi ricostruisce il giorno della morte di Daniel: «Uscì di casa nel pomeriggio dopo avermi chiesto 5 euro per comprare un pacchetto piccolo di sigarette. All’epoca il giovane non lavorava dopo aver fatto per un periodo il muratore. Il denaro guadagnato con quel lavoro, circa 950 euro al mese, che Daniel consegnava alla madre, era servito nell’autunno precedente a pagare il matrimonio del fratello a Malaga. «Tossicodipendente? Non lo so. So soltanto che in genere chi si droga sta sempre in mezzo ad altra gente, a tante persone. Lui non portava mai nessuno a casa».
Non sorride quasi mai, Marianna, ma i suoi occhi chiari dicono molto e raccontano di una vita difficile che in Italia sperava di migliorare. Non è stato così. «Mi sono rivolta tante volte all’ufficio Politiche sociali del Comune per avere un’aiuto. Anche il sindaco mi aveva detto che si sarebbe occupato del mio caso, ma non è successo mai nulla e io oggi dormo a casa di un’amica».
Il cuore di Daniel fu donato e espiantato poche ore dopo la sua morte da un’èquipe giunta dall’ospedale Maggiore Borgo Trento di Verona.

a.ciervo@luedi.it

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