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POTENZA – «Non risponde affatto al vero che la paziente fosse morta nelle prime fasi dell’intervento, né tantomeno che l’operazione sarebbe proseguita al solo scopo di nascondere l’accaduto, come sarà inequivocabilmente dimostrato nel corso del processo e come risulta già evidente dall’analisi della documentazione disponibile».
Così gli avvocati Michele Laforgia e Francesco Auletta, difensori di Nicola Marraudino, il primario di Cardiochirurgia del San Carlo arrestato assieme ad altri due medici per il decesso di Elisa Presta, avvenuto il 28 maggio 2013.
Secondo la difesa, Marraudino ha fatto «tutto il possibile per ben sette ore al solo scopo di salvare la vita della paziente dopo la grave complicanza verificatasi prima del suo arrivo in sala operatoria». Marraudino dopo «avere subito – aggiungono i suoi legali – un linciaggio mediatico senza precedenti nei mesi scorsi, si trova attualmente agli arresti domiciliari con il divieto di comunicare con l’esterno. Non può, pertanto, replicare in prima persona alle numerose inesattezze pubblicate in occasione del suo arresto, peraltro adottato dall’autorità giudiziaria senza aver mai acquisito la sua versione dei fatti».
In attesa dell’interrogatorio di garanzia «dobbiamo precisare, a fronte delle dichiarazioni rese dal Commissario del San Carlo, che il nostro assistito non ha ricevuto alcuna richiesta di dimissioni e che, oltre alla pressante richiesta di “non mollare” espressa da tutto il personale della Cardiochirurgia, da gran parte dei colleghi e da numerosi pazienti, proprio il suo senso di responsabilità lo ha indotto a restare al suo posto in attesa degli accertamenti delle autorità competenti. Senso di responsabilità che lo aveva spinto a fare tutto il possibile per salvare la vita della paziente dopo la grave complicanza verificatasi prima del suo arrivo in sala operatoria».
«Non possiamo non sottolineare – concludono – che l’adozione di una misura restrittiva della libertà personale per reati inerenti l’attività medico-chirurgica, oltre a essere sproporzionata alle accuse, costituisce un pericoloso precedente per tutti gli operatori sanitari italiani».
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