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CI sono tanti modi per fare il giornalista. Quello scelto da Michele Albanese, il collega de “Il Quotidiano del Sud” da qualche giorno sotto scorta, onora l’intera categoria. I suoi reportage trasudano verità sofferte e, in essi, il coraggio del racconto è sempre al centro dell’indagine del reale. Ma è il contesto, avrebbe detto Leonardo Sciascia, a rendere tutto più difficile. Qui, dove la melma del malaffare e dei poteri nascosti conosce solo la strategia della violenza e della morte, indagare per svelare connivenze e latrocini, diventa molto più che difficile: un azzardo. Porsi come testimoni del tempo diventa un oltraggio.

Testimoni, Michele come altri colleghi minacciati, di un tempo in cui la lotta tra uno Stato ancora fragile e cosche sempre più agguerrite nel controllo del territorio, produce una sequela agghiacciante di morti ammazzati, di colletti bianchi con le mani sporche, di politicanti soggiacenti alle regole del più forte.

Tutto questo in una Calabria bella e generosa, madre di un popolo ricco di qualità e dalle grandi capacità professionali, espresse onestamente e con spirito di servizio. Ed è qui che la schiena dritta nell’esercizio della professione diventa un rischio.

Quello di chi ha il coraggio della denuncia e, nella mente e nel cuore, l’obiettivo del bene comune.

Per oltre dieci anni, come inviato speciale di un quotidiano nazionale, ho raccontato le stragi di mafia, da Chinnici a Lima, passando per Falcone e Borsellino. Sono stati anni utili per comprendere la grande precarietà di un Mezzogiorno che, come hanno testimoniato don Puglisi, Giancarlo Siani, don Peppe Diana e tanti altri ancora, rivendica la propria dignità e alza la testa per il riscatto civile e sociale.

Un Sud povero, arretrato, dimenticato dall’agenda del governo, con una classe dirigente non sempre all’altezza del compito, diventa preda del malaffare che vuole imporre o protrarre la propria egemonia, mortificando l’intelligenza e l’onestà di chi crede nel cambiamento.

A noi giornalisti spetta il dovere di mantenere la guardia alta per evitare che la malapianta si diffonda. Lo facciamo insieme con le istituzioni, la chiesa, le associazioni di volontariato e a quanti, dimostrando solidarietà per Michele, vogliono difendere con coraggio questa nostra Calabria, terra strategica per tutto il Mezzogiorno e l’Italia.

Se qualcuno ha pensato di riuscire attraverso il terrore a paralizzare la vita e il lavoro di uno di noi, ebbene costui è in errore.

Non siamo soli, non ci facciamo intimorire e, come Michele, crediamo che il nostro mestiere abbia senso soltanto se svolto con rigore e al servizio del giusto e del vero.

 

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