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SONO circa 200. Non di più. 140 stanziano nei pressi di Boreano; una trentina nel cosiddetto palazzo Saraceno. Altri in un capannone nelle campagne di Montemilone in contrada Stregaprete. Sono tutti africani. Di donne se ne vedono poche. Di bambini nemmeno l’ombra.
Quelli che incontriamo hanno sentito parlare dei centri di accoglienza che la Regione sta organizzando.
Qualche volontario nei giorni scorsi ha cercato di spiegargli che da quest’anno, potranno avere un letto e un alloggio degno di questo nome. Ci proviamo anche noi.
Ma al momento sembrano non pensarci immersi come sono in una quotidianità fatta dalla sola speranza di poter essere “ingaggiato” e guadagnare – quando va bene – una trentina di euro.
La campagna del pomodoro sta per partire. Alcuni già lavorano in quei campi dove “l’oro rosso” è maturato. Altri raccolgono frutta al confine con la Puglia. La maggior parte invece, aspettano. Aspettano il caporale di turno che la mattina presto fa la conta della manodopera che serve in quel determinato campo. Sperano di essere scelti e di poter lavorare e guadagnare quel poco che al netto di tutte le spese (viaggio, pranzo, cena), può rendergli la vita meno dolorosa.
Una parte – piccola al momento – viene ingaggiata. Gli altri invece tornano mestamente nei “loro” tuguri senza energia e senza acqua, nella speranza che domani possa essere un giorno migliore.
Il nostro tour incomincia proprio da quelle zone di confine in cui il “centro” ideale è il “non luogo” di Boreano.
Una capitale decaduta come quei casolari ancora aperti (altri invece sono stati murati per evitare che gli extracomunitari possano trovarvi rifugio) dove, loro malgrado, i migranti trovano un tetto. E non importa se non c’è energia o acqua potabile corrente. Non importa se il caporale si fa pagare, con l’ausilio di un generatore elettrico, anche la ricarica del cellulare (pare che il prezzo sia 50 centesimi per mezz’ora). A loro non importa. Sembrano subire questo “status quo” perchè vivono di quella speranza: alzarsi la mattina e trovare un “ingaggio”. Rino della Caritas della diocesi di Melfi-Venosa-Rapolla lo sa bene. Sono anni che con i volontari della struttura religiosa percorre “le vie del pomodoro”. Raccolgono beni di prima necessità e poi, quasi tutti i giorni e da diverse estati, vanno in quei luoghi dove il tempo sembra essersi fermato da decenni.
Arriviamo a Boreano. Incontriamo “Nanni” e Amado. Ci salutano con “calore”. Sono del Burkina Faso. Gli chiediamo se sanno dei campi di accoglienza che da metà agosto saranno aperti. «Sì, sì…Venosa» risponde il primo anche se presto avanza una legittima richiesta: «scarpa…46» continua a ripetere. Rino appunta e passa ad Amado. Lui ha subito un incidente. Rino gli dice che nella giornata di domani (oggi per chi legge) un medico lo visiterà al piede.
Riprendiamo il cammino. Percorriamo la strada dissestata ai cui lati sono disseminate le case abbandonate. Incontriamo Abdul.
Insieme a un suo amico sta costruendo una capanna.
«Tutto occupato…per questo costruire» ci dice.
Quando passiamo noi, ha quasi finito. I muri di cartone sono stati già posizionati, manca solo il tetto.
Di queste costruzioni ce ne sono già una decina in cui trovano ristoro una cinquantina di migranti. Boreano è anche questo.
Quando ce ne andiamo ci salutano con lo stesso calore.
Nel ritornare a Venosa li vediamo questi campi di pomodoro. Sterminati. Sono ancora pochi i migranti che vi ci lavorano. Del resto la “manodopera” è richiesta in caso di pioggia. E ieri sul Vulture Alto Bradano c’era un sole che spaccava le pietre. Un problema in più per i migranti. Senza luce, senza gas e a volte nemmeno senza un po’ di acqua per dissetarsi. Chi ha la possibilità potrà comprarla, altri invece dovranno fare chilometri sotto il sole, per poter riempire la propria tanica che servirà non solo per bere, ma anche per lavarsi.
Anche questa è Basilicata; persa in una zona di confine, dove pure il tempo sembra essersi fermato.
g.rosa@luedi.it
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