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POTENZA – Ventidue imprese lucane raggiunte da interdittive antimafia in un anno, nel 2021. Quasi una ogni 25mila abitanti contro una media nazionale di una ogni 71mila. Un dato superato soltanto dalla Calabria, con un’impresa interdetta ogni 8.900 abitanti, mentre in Puglia se ne segnala una ogni 62mila, in Campania una ogni 44.021, e in Sicilia una ogni 35mila.
È un vero e proprio allarme sulle infiltrazioni dei clan nell’economia lucana quello che emerge dalla relazione della Direzione investigativa antimafia sulle attività svolte nel secondo semestre del 2021.
«CAPACITÀ DI ADATTAMENTO E MIMETIZZAZIONE»
«In Basilicata – si legge nel testo appena pubblicato – la capacità di adattamento e mimetizzazione della criminalità mafiosa emerge dalle numerose interdittive antimafia che offrono la percezione del rischio di inquinamento mafioso nell’economia del territorio soprattutto nei confronti delle aziende indebolite dalla contingente crisi economica legata alla pandemia da Covid-19. Il protrarsi della situazione epidemica infatti se da un lato ha indebolito il tessuto produttivo e il benessere delle famiglie, dall’altro ha affinato la strategia delle organizzazioni criminali allo scopo di proporsi come sostegno attivo a imprese in difficoltà e in crisi di liquidità trasformando l’originale impiego della violenza e della minaccia in schemi di sopraffazione economica gestiti attraverso la creazione o lo sfruttamento di un reticolo di relazioni affaristiche e collusive».
Gli investigatori indicano «il salto di qualità che si è registrato nelle dinamiche criminali lucane, e la sempre più pervasiva presenza delle organizzazioni malavitose nella vita economica della regione Basilicata», come il motivo principale della recente istituzione a Potenza della sezione operativa della Dia inaugurata a marzo.
LE INTESE COI CLAN DI ALTRE REGIONI E IL FEUDO DEI MUTO NEL LAGONEGRESE
Quanto alle caratteristiche dei clan che gestiscono i vari traffici illegali sul territorio, nella relazione si evidenzia un tratto comune costituito dagli accordi stretti con «con associazioni criminali di più alto spessore come quelle calabresi, pugliesi e campane». Con un’unica eccezione «ugualmente allarmante» rappresentata dalla zona di Lagonegro: «unico territorio in cui la criminalità autoctona si sarebbe sostanzialmente ritirata cedendo il passo ad un’organizzazione proveniente da un’altra regione, vale a dire il clan ‘ndranghetista dei Muto di Cetraro».
«L’area infatti – proseguono gli inquirenti – sarebbe ora divenuta rotta obbligatoria per il transito di droga e di armi da parte di organizzazioni criminali calabresi e campane». Altra situazione in cui le «influenze» di fuori regione si avvertono in maniera più forte, poi, è quella costituita dal melfese rispetto alla criminalità di Cerignola.
RIFLETTORI SUL METAPONTINO
A destare la maggiore preoccupazione, ad ogni modo, restano il metapontino e Scanzano Jonico, comune sciolto per mafia a dicembre del 2019, dove a lungo avrebbe imperversato il clan capeggiato dall’ex carabiniere Gerardo Schettino. «La situazione più critica permane comunque quella della provincia di Matera – si legge ancora nella relazione – dove continua ad essere condizionata dalla capacità del clan Schettino di infiltrarsi nel tessuto economico legale mediante società di comodo o acquisendo il controllo di settori economici produttivi sul territorio oltre che investendo gli operatori economici presenti sul mercato con metodi tipicamente mafiosi nel tentativo concreto di riciclare i proventi derivanti dalle attività illecite». A testimonianza della situazione sul territorio vengono riportate anche alcune dichiarazione rese «informalmente» dal questore e dal prefetto di Matera, Eliseo Nicoli e Sante Copponi.
Per quest’ultimo, in particolare, la fascia jonica metapontina va considerata «l’area maggiormente esposta a fenomeni criminali» presentando, tra l’altro, «profili di vulnerabilità connessi a possibili infiltrazioni di un certo spessore criminale» data la collocazione geografica tra Calabria e Puglia. Nicoli, invece, ha collegato l’attrazione della criminalità dalle regioni limitrofe al «proliferare delle attività commerciali e turistiche degli ultimi anni».
IL VUOTO DI POTERE E IL RITORNO DEGLI SCARCIA
Un passaggio significativo della relazione appena pubblicata, inoltre, segnala l’esistenza di un «vuoto di potere» provocato dagli arresti effettuati nell’ambito delle indagini sul clan degli scanzanesi, che «ha rappresentato la condizione favorevole per la riconquista del controllo delle attività illecite sia da parte di taluni reduci della citata aggregazione criminale che degli appartenenti agli Scarcia».
«In particolare – prosegue la relazione – la ritrovata libertà di un elemento di quest’ultimo gruppo potrebbe rappresentare un ulteriore elemento di catalizzazione degli equilibri criminali della fascia jonica».
GLI AFFARI DEL CLAN MARTORANO
La Dia si è soffermata anche sull’esito dell’inchiesta Lucania Felix, che a novembre dell’anno scorso ha colpito i nuovi affari dell’ormai storico clan egemone sui traffici criminali di Potenza, capeggiato da Renato Martorano e Dorino Stefanutti. «L’indagine – è scritto nella relazione – ha evidenziato l’efficace attitudine ad operare come le mafie più evolute attingendo e sfruttando quella zona grigia in cui collusione, scambio di favori, commistioni e collegamenti con persone inserite nei contesti economico-istituzionali sono stati lo strumento di affermazione criminale e il veicolo della propria capacità intimidatoria».
In questo senso vengono citati «i rapporti con una società napoletana di servizi di pulizia e manutenzione» che sarebbe stata «cogestita dal clan potentino con il gruppo camorristico dei Lo Russo/Capitoni di Napoli».
«Diversamente da quelli con la ‘ndrangheta – proseguono gli investigatori dell’Antimafia – i rapporti tra il clan potentino e la mafia campana sembrerebbero improntanti ad un mero rapporto economico. Il do ut des nella cogestione dell’azienda consisteva, infatti, nell’erogazione di un contributo dei partenopei all’organizzazione mafiosa Martorano-Stefanutti per il servizio che questa svolgeva nel controllo del territorio e di risoluzione delle controversie relative alla gestione dell’appalto o del servizio nella loro area d’influenza».
Quanto al collegamento con i padrini calabresi del clan Grande Aracri di Cutro, in provincia di Crotone, la Dia parla di una «comune sfera di interessi» che non risulta circoscritta «solo ad aspetti di stretta relazione criminale come le estorsioni ai danni di imprese edili e società di capitali, il traffico e lo spaccio di droga o la gestione del gioco d’azzardo attraverso le macchinette videopoker».
Il clan potentino e i suoi referenti di oltre Pollino, infatti, avrebbero avuto una «proiezione più ad ampio raggio, che mira all’acquisizione e gestione di lavori, appalti pubblici e acquisti di immobili, nonché volto alla realizzazione di parchi eolici con apporto di capitali propri “in aderenza a protocolli criminali finalizzati anche a schermare la provenienza degli stessi consentendone il reimpiego in affari apparentemente leciti e puliti”».
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