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Quelle foto ingiallite, forse non dicono molto. Le parole scritte su fogli ingrigiti sembrano appartenere a qualcuno altro.
Le armi, le baionette, sembrano oggetti d’antiquariato senz’anima. Invece, è la nostra storia, quella di giovani contadini lucani che nel 1914 hanno scelto la guerra e abbandonato i campi in cui non speravano di avere futuro. In molti casi sono diventati caduti della Patria. Per la precisione i dispersi lucani nel Primo grande conflitto sono stati più di 6000, 2000 i mutilati e invalidi e 566 i decorati.
Alto, fu comunque, anche il numero di renitenti alla leva che preferirono emigrare per evitare le armi al fronte.
La mostra “Trincee 1914-2014”, inaugurata ieri all’Archivio di Stato (e realizzata a costo zero) parla di quelli dei quali si è riusciti a trovare traccia.
Il lavoro nato dalla passione per la ricerca storiografica del direttore Antonella Manupelli, ha scavato negli archivi, alcuni dei quali, privati, hanno fornito materiale straordinario. E’ il caso del sottotenente Nicola Viggiani, potentino, che ha documentato la sua esperienza con moltissime foto, oggi parte dell’esposizione. I volti sono quelli del capitano Giuseppe Mucci di Miglionico, morto sull’Altopiano del Carso e le parole sono anche quelle di Silvio Scaroni, aviatore o Alberto Caldlolo, medaglia d’oro della Grande guerra.
«Il nostro – ha spiegato Antonella Manupelli, aprendo la mostra – è un messaggio di pace attraverso il racconto di quella guerra che fu davvero sanguinosa». L’Italia, ha aggiunto, sperava in un conflitto breve che, invece, si trasformò in un’ecatombe. Ma il vero colpo al cuore si deve alla commovente messa in scena di Emilio Andrisani e Emilia Fortunato di Hermesteatro che, in collaborazione con la stessa Manupelli, hanno realizzato un copione composto da stralci di lettere dal fronte.
Genitori, mogli, sorelle, sono i destinatari di parole ora accorate, spaventate, commosse, rabbiose in cui il fango si confonde alla paura, le bombe fanno da sottofondo alle emozioni, una notte silenziosa accanto ad un cadavere sembra la più bella mai vissuta.
Lo choc del conflitto diventa racconto vivo, carnale in cui le esplosioni in sottofondo si mescolano a parole come orrore, guerra, dolore.
«La faccia della guerra, quando la vedi da vicino – si legge in una lettera – non ha peli». Non manca la speranza di qualcuno che si augura una conclusione felice: «Il vostro nome è a me ben affidato e tornerò contento a voi».
«Questa guerra getta l’anarchia fra le idee e indebolisce gli uomini».
Ogni uomo, ogni vittima è una piccola candela che man mano si spegne mentre il racconto va avanti e conduce quasi inesorabilmente alla morte.
C’è tanto nel valore sociale del teatro che domenica mattina all’Archivio di Stato ha incantato il pubblico, perchè la memoria dev’essere anche coscienza.
Accade a Matera grazie al direttore dell’Archivio di Stato.
a.ciervo@luedi.it
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