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LAVELLO – La giustizia – c’è scritto in tutte le aule dei Tribunali – è uguale per tutti. Questo in teoria. Nella pratica le cose non vanno esattamente così. Perchè se dopo un anno non hai ancora risposte sull’assurda morte di tua moglie, senti che la giustizia è davvero solo una vuota parola.
Giuseppe Errichiello, in poche ore, ha visto la sua vita precipitare. La mattina aveva una bella moglie, una figlia e un’altra in arrivo. Quella stessa sera – era il 3 settembre del 2013 – si è ritrovato senza la sua Regianae e con una figlia «salvata per i capelli». E invece di festeggiare la nascita, ha dovuto trovare la forza di organizzare un funerale. A distanza di un anno è ancora fermo a quelle ore. Disperatamente aggrappato alla ricerca di una verità che «è necessaria anche per le mie figlie. Che dovrò rispondere quando mi chiederanno perchè è morta mamma?». Perchè quella morte – che per qualcuno è stato un incidente di percorso forse – ha segnato tutta la famiglia per sempre. Regianae è morta, la prima figlia è in Brasile insieme alla nonna materna. Una famiglia fatta a pezzi in poche ore, per la quale si erano tutti mossi nell’imminenza dei fatti. La promessa di indagini e inchieste che si sono evidentemente fermate in qualche cassetto del dipartimento Salute della Regione Basilicata. E ora è tutto fermo alla Procura di Potenza, in attesa che gli “ignoti” diventino noti. In attesa che vengano fuori i nomi dei medici e degli infermieri che quel giorno seguirono il caso di una povera ragazza di 25 anni che voleva diventare mamma ed è invece morta in un ospedale.
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«Continuavamo a fare avanti e indietro da Lavello all’ospedale di Melfi tutti i giorni – racconta Giuseppe – perchè Regianae non stava bene. Si alzava la pressione fino a 200. Il 28 agosto le fanno anche un’ecografia (che poi è scomparsa dagli atti), che evidenzia come la bambina non cresca più. C’era poco liquido amniotico e il feto era già in sofferenza».
Regianae, invece, viene rimandata a casa, così come nei giorni successivi. «Il giorno prima ci hanno fatto arrivare in ospedale e rimandato a casa perchè non c’era l’esame delle urine. Erano le nove del mattino e io ho chiesto a medici e alla caposala di fare subito quell’esame e non farla tornare a casa. “Sono gli ordini”, mi hanno risposto e noi siamo tornati a Lavello».
La perizia firmata da Luigi Strada – attenzione, non quella di parte, ma del Ctu – evidenzia come sarebbe stato opportuno ricoverare Regianae già a metà agosto, quando la sofferenza del feto era già evidente. E quando un cesario – programmato e ben organizzato – avrebbe potuto salvare la vita della giovane mamma.
Invece si arriva alla mattina del 3 settembre: «Io lascio mia moglie in reparto ancora con i vestiti addosso. Mi dicono che avrebbero dovuto far nascere la bambina proprio quel giorno, quindi io la lascio per tornare a Lavello a prendere la mamma di Regianae. Ma quando torno la cerco in reparto e lei non è più lì».
Perchè per la povera Regianae, nel frattempo, è iniziato l’inferno. Per indurle il parto le è stato somministrato il “Prepidil”. Ma la ragazza ha un’allergia (di cui i medici erano a conoscenza) e si sente male. Di qui la decisione di procedere con l’epidurale e un taglio cesario d’urgenza, con il quale «salvano, tirandola per i capelli», la bambina. Regianae, invece, vive la sua agonia in una sala operatoria del reparto di Ortopedia, perchè è occupata la sala dove l’intervento avrebbero dovuto farlo. Fuori ci sono i parenti disperati a cui viene detto «di non gridare, che vi gridate. Abbiamo salvato la bambina, salveremo la mamma». Il ventre di Regianae, intanto, è stato prima aperto, poi richiuso. Ma l’emorragia non si ferma, quindi bisogna riaprire. «Ci dicono che le va tolto l’utero – racconta Giuseppe – e noi suggeriamo di farla portare da un’altra parte con l’elicottero. Ma ci rispondono altrove non avrebbero fatto nulla di diverso». E Regianae resta lì, subisce un’isterectomia, le fanno trasfusioni, infusioni di plasma, provano a rianimarla. Ma alle 18 «persiste il gravissimo stato di shock, alle 22.30 è in atto una gravissima anemizzazione» che porterà la giovane mamma alla morte intorno alle 23. Dodici ore dopo il suo ricovero in ospedale, nel reparto di Rianimazione.
«Noi facevamo sopra e sotto, tra mia moglie e la bambina. Perchè il dottor Lapadula in Neonatologia ci aveva detto che erano gravi anche le condizioni della piccola. Aveva un ago nella testolina e noi eravamo disperati. Chiedevamo notizie e nessuno ci diceva nulla. Poi quando tutto è finito se ne sono andati dalla porta di servizio, nessuno è venuto neppure a dirci una parola. Neppure un briciolo di umanità. E hanno anche provato a farci portar via il corpo di mia moglie quella sera stessa, sperando che noi facessimo i funerali e chiudessimo il caso».
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Invece il marito di Regianae va al Commissariato di Melfi, accompagnato dai sui legali Fabio Di Ciommo e Giuseppe Colucci, e passa il resto della notte a denunciare quanto è avvenuto. Facendo i nomi e i cognomi dei medici e degli infermieri che erano lì quel giorno e che su quel povero corpo hanno operato. Nomi e cognomi di persone che, per la Procura di Potenza sono ancora “ignoti”.
«Io non sono un esperto – dice Giuseppe Errichiello – ma mi chiedo come sia possibile che a un anno da quel giorno non si riesca ad avere l’elenco dei nomi di chi era lì in reparto. E in quest’anno non mi risulta ci siano state persone sospese anche per un solo giorno».
L’assenza di giustizia. Chi evidentemente ha sbagliato ha continuato la sua vita come se nulla fosse accaduto. Chi era dall’altra parte ha perso tutto quello che aveva. «Il lavoro ormai l’ho messo in secondo piano. Se la bambina sta male una settimana io la pizzeria la chiudo. Se lei piange io devo scappare, non ho più la possibilità di dedicarmi alla mia attività a tempo pieno. E gli affari chiaramente ne risentono. La bambina che mi chiamava papà (anche se era figlia biologica solo di Regianae, ndr.) è ora in Brasile con la nonna. Ci sentiamo tutti i giorni, ma lei è lontana. E dire che io e Regianae avevamo voluto questa seconda gravidanza proprio perchè la più grande avesse una sorella con cui giocare. E io resto qui solo per mia figlia che domani (oggi, ndr.) compie un anno. Ma chi avrà la forza di festeggiare?».
Giustizia è una parola vuota se non la si riempie di contenuti. Giuseppe in quest’ultimo anno non è stato mai sentito una volta. Eppure la denuncia fatta quella notte è chiara e circostanziata, con nomi e ore. Non è stata fatta un’udienza preliminare, nessun rinvio a giudizio. Sono ancora “ignoti” gli attori di tutta la vicenda.
In quest’anno, però, il dottor Luigi Strada ha consegnato la sua perizia, che è un colpo al cuore: «Pur considerando bassa l’incidenza e imprevedibile la complicanza aitrogena, si ritiene che la gestione del caso, complesso e ad elevato rischio ostetrico, sia stata imprudente nella decisione di indurre il travaglio di parto e negligente per non aver adottato quelle minime cautele di sicurezza che il caso richiedeva (incannulazione di una vena, registrazione Ctg preventiva delle condizioni fetali e disponibilità di una sala operatoria». Questa è la conclusione di Strada, che continua: «Le condizioni della signora Sousa, dal primo accesso al Pronto soccorso a Melfi fino al ricovero del 3 settembre, sono state oggettivamente sottovalutate, sia dal punto di vista materno che da quello fetale».
Oggi, con una messa e un fiaccolata, Lavello ricorderà quella giovane madre sorridente. Che se oggi ci fosse stata starebbe preparando la torta di compleanno per la sua bambina. E invece non ha potuto tenerla in braccio neppure un solo minuto.
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