10 minuti per la lettura
Sui media locali non è passata inosservata la visita che l’ambasciatore del Brasile, Ricardo Neiva Tavares, ha realizzato nei giorni scorsi nell’area sud della Basilicata. Un momento sicuramente molto importante, dal momento che si tratta del primo diplomatico brasiliano a visitare le comunità di alcuni paesi la cui storia sociale è stata segnata, per molti anni, dall’emigrazione verso l’America latina e, nello specifico, in Brasile. Si è dunque recato a Maratea, Lagonegro, Lauria, Castelluccio Inferiore e Superiore, Trecchina.
Queste ultime realtà (Castelluccio e Trecchina) sono quelle che hanno dato il contributo più significativo – in termini prosopografici – all’emigrazione dall’area sud lucana verso i paesi subtropicali, dal momento che ancora molto forte è il legame che conservano con le rispettive comunità migranti. I Castelluccesi si radicarono particolarmente nella zona di Manaus, di Espirito Santo e di Rio de Janeiro, dove ancora oggi sopravvive un numeroso gruppo di discendenti, molti addirittura di prima generazione, e non manca chi è nato in Basilicata per poi emigrare piccolissimo. Essi, quando possono, si recano in visita nei luoghi d’origine (all’emigrazione carioca era legata anche la famiglia protagonista di quella mirabile saga castelluccese che è L’animale a sei zampe, di Vincenzo Celano, 2013).
Da parte sua, Trecchina ha strette relazioni con lo Stato di Bahia, in particolar modo lungo le rive del fiume De Contas, dove a partire dalla metà dell’Ottocento i suoi emigranti hanno esportato la loro maestria artigianale, soprattutto nella lavorazione del rame, contribuendo e approfittando della crescita economica delle nuove realtà sudamericane. Con lo sviluppo delle loro attività e una consistente emigrazione di richiamo, cominciò a svilupparsi un importante nucleo urbano: la città di Jequé, che deve dunque ai trecchinesi se non proprio la sua fondazione, di sicuro la sua espansione commerciale. Si tratta di una storia cui abbiamo già accennato in questa sede, e di cui hanno trattato pregevoli studi quali il libro ormai introvabile di Carlos e Carmine Marotta, Casa Confiança. Storia della fondazione di Jequié (2003), e i lavori sull’emigrazione calabro-lucana di Vittorio Cappelli (per ultimo, il suo Rotte migratorie calabro-lucane [e cilentane] in America latina. Percorsi artistico-culturali e sviluppo urbano in Brasile tra ‘800 e ‘900, in “Basiliskos”, vol. II, 2015). Dell’emigrazione dalla Valle del Noce proverò a dare un quadro di ulteriore approfondimento in un articolo che apparirà, a ottobre, sul prossimo Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes.
Castelluccio (di sopra e di sotto) e Trecchina mantengono dunque relazioni con quelle che Benedict Anderson – grande studioso americano di questo concetto (si consiglia la lettura del suo saggio più importante, Comunità immaginate. Origine e fortuna dei nazionalismi, edito in Italia nel 2000 da Manifestolibri) – avrebbe chiamato “comunità parallele”. Nel senso che la corrispondenza si definisce innanzitutto nella grande distanza dei due gruppi paralleli (l’Atlantico che divide favorisce il processo di duplicazione). A questa condizione si accompagna la subordinazione della comunità “nuova” a quella “vecchia”, su un piano valoriale e culturale. Nel caso al quale mi sto riferendo, tale assoggettamento avviene nella condivisione di memorie familiari e culturali che vengono riprodotte nel tempo, e nel tempo si diluiscono e si contaminano, divenendo altra cosa rispetto al modello originario. Si assiste così alla trasformazione della tradizione in meticciato: essa è profondamente reinventata, divenendo a sua volta modello di riferimento per altre pratiche che saranno considerate, a loro volta, tradizionali. È una mutazione di contenuto ma non simbolica, dal momento che le comunità nuove credono di vivere esistenze parallele a quelle vecchie. Ciò è possibile solamente per il radicamento di una linea affettiva, sentimentale, che non permette a chi crede di riprodurre usi e costumi della cultura di origine di avvertire il distanziamento, lento e inesorabile, da quel riferimento originario. È un processo positivo e incontrovertibile: fa parte del rapporto tra l’uomo e l’ambiente in cui vive.
Nasce così la rappresentazione di un luogo altro, di un’altra Lucania, non meno bella e affascinante, ma che sostanzialmente è altra cosa rispetto al modello che vuole riprodurre. Come altra cosa è – per fare un esempio semplice – la salsiccia (o lucanica) che producono gli italobrasiliani nell’area di San Paolo, diversa da quella che si produce nel sud Italia, soprattutto in un elemento fondamentale: il sapore. Diverso è anche il nome: si chiama linguiça, e non salsiccia. Eppure tutto ciò non stempera la carica simbolica di quel prodotto: per quelle comunità è il legame all’origine, che permette loro di riprodurre orgogliosamente una cultura gastronomica che però è più evoluta di quella originaria, perché contaminata da altre culture, da altri ingredienti, da altri modi di preparare il cibo e di conservarlo. L’emigrante o i suoi discendenti credono di vivere in parallelo, ma sono loro stessi a fondare un costume che è intimamente proprio, e che sarà reiterato dalle generazioni che seguiranno.
Ho conosciuto la dinamica comunità lucana di Rio, di origine prevalentemente castelluccese, nei mesi che ho trascorso in quelle zone. Gente meravigliosa e di cuore, che mi ha accolto come fossi uno di loro. Ricordo che arrivai il giorno in cui l’allora presidente della commissione dei lucani all’estero, Pietro Simonetti, inaugurava la bella e spaziosa sede dell’associazione nella centrale avenida Presidente Antonio Carlos, nel palazzo contiguo al consolato italiano e all’istituto di cultura. Su sua richiesta, partecipai per un semestre all’avvio dell’associazione, con una passione pari ai componenti di quella comunità “parallela”. Vi ritrovai inoltre un compagno di scuola elementare, Giuseppe, che si era trasferito a Rio per amore, e siccome era un amore forte oggi ha una bella famiglia, e pare che prepari delle conserve “alla lauriota” che vanno a ruba. Ho molta saudade di quel periodo, come credo lui ne abbia dei nostri anni verdi. Se però tornassi in Brasile, mi piacerebbe conoscere anche i discendenti lucani di Jequé, e verificarne sul campo l’eredità culturale della “colonizzazione” trecchinese.
Diverso, invece, è il caso di Lauria e dei laurioti, che non hanno nessuna memoria e nessun legame con una comunità parallela. Le memorie sono parcellizzate e di esclusivo carattere familiare: quasi ogni nucleo ha un parente (prossimo o lontano) nelle Americhe, ma la comunità nel suo insieme non ha nessun luogo specifico di riferimento. Né può dirsi vivo un parallelismo delle istituzioni, come invece avviene nei comuni che abbiamo menzionato in precedenza. Questa frammentazione rispecchia fedelmente la molteplicità dei destini dei flussi migratori generati da questa realtà, che non ha mai visto affermarsi uno dei paradigmi fondamentali della mobilità in uscita: le catene migratorie, capaci di trasferire in località specifiche gruppi consistenti di concittadini. Non esiste, insomma, una “Nuova Lauria”. D’altronde l’emigrazione lauriota, che numericamente non è stata insignificante, è stato un processo diverso, molto variegato e, per certi versi, più complesso.
Lo capì già Ausonio Franzoni, nella sua relazione sull’emigrazione in Basilicata che realizzò agli inizi del Novecento per conto dell’allora primo ministro Zanardelli. Notando sin dal suo arrivo in città un diffuso benessere, testimoniato in maniera particolare dalle belle abitazioni che si trovò a osservare, annotava queste considerazioni: «da queste premesse è facile prevedere come qui il fenomeno emigratorio non sia guari allarmante […] si emigra per desiderio di lucro, ma col proposito del ritorno; è rara la famiglia, anche di medio ceto, che non abbia un membro in America e che da quello non riceva soccorsi o risparmi […] non esiste affatto esodo verso l’America del Nord; il nucleo maggiore degli emigranti si trova nell’Argentina […] moltissimi si trovano pure in Brasile, vari di essi possiedono delle fazendas al cui lavoro chiamano i compaesani […] muratori e falegnami in massima parte, trovano agevolmente lavoro; gli altri si dedicano al commercio minuto e si spargono in Centro America, nel Venezuela e nelle Antille. Ve n’hanno a Portorico in buone condizioni ed a Panama e Caracas» (L’emigrazione in Basilicata, 2ª ed., 1904).
Non esistono studi monografici sui laurioti altrove, in questo o quell’altro Stato, in questa o quell’altra città. Ecco dunque che la memoria migrante finisce per consolidarsi attorno ai profili biografici di alcune personalità di spicco. Fatta eccezione per l’Argentina, caso che andrebbe necessariamente approfondito, ecco emergere in Brasile la figura rilevante di Nicola Santo, ingegnere e sviluppatore dell’aviazione brasiliana; o del meno conosciuto Elvio Salvador Cassino, alto funzionario prima del Banco Central do Brasil, poi della delegazione brasiliana al Fondo Monetario Internazionale a New York, e che negli anni settanta decise di rifiutare un importante incarico al ministero dell’economia per non compromettersi ulteriormente con la dittatura militare che aveva in pugno il paese. Sono storie singole, che sembrano essere uscite dal nulla, quasi create apposta per permettere anche alla comunità lauriota di legittimarsi nell’affascinante mondo dell’emigrazione italiana.
Eppure anche questi uomini avevano comunità di riferimento alle spalle. Tanto a Rio come in altre parti del Brasile. Si conosce una presenza lauriota nel Pernambuco (nord-est, capitale Recife). Forse lì la comunità lauriota potrebbe avere la sua Iúna o la sua Jequé. O forse dobbiamo scorrere ancora la cartina geografica di questo paese che è un continente, e puntare il dito un po’ più giù, a ovest di Rio, nello Stato di Minas Gerais (Belo Horizonte) e, più precisamente, nella sua area sud-occidentale di Minas Gerais, in quella superficie di altipiani compresa tra le prefeituras di Santos Dumont, Ouro Preto e Juiz de Fora. È una città diffusa, in una zona un tempo ricca di miniere d’oro e dove dunque vi era una grande richiesta di manodopera. Qui si installarono molti laurioti emigrati negli anni ’20 del Novecento. I cognomi ancora rintracciabili sono Fittipaldi, Pansardi, Cosentino, Palmieri, Mandarino, Scaldaferri, Pittella. Già, i Pittella: in questa zona sono ancora presenti in tal numero che ogni anno, provenienti da ogni angolo della regione, si riuniscono in partecipati convivi che, nella simpatica versatilità della lingua portoghese, sono stati ribattezzati come “Pittelladas”.
L’assenza di un riferimento geografico certo, di una comunità parallela al pari di quanto avvenuto per i castelluccesi o i trecchinesi, li ha portati più rapidamente ad essere una comunità “altra”. Per loro, Lauria è stato sempre un luogo immaginario, un’isola che non c’è; ma che oggi, con l’aumento del numero di turisti brasiliani nel mondo,cominciano a riscoprire, viaggiando e visitando. Sarebbe davvero cosa buona se le istituzioni lauriote non si accontentassero dei totem agiografici di poche, seppur importanti figure per poter partecipare all’eucaristia dell’emigrazione. Sarebbe cosa buona se provassero a riallacciare un dialogo perduto quasi cento anni fa. Se ci provassero davvero, attraverso programmi mirati di ricerca e scambio, potrebbero recuperare i fili di una diaspora che è appare perduta nel tempo, e così restituire un po’di memoria e offrire il giusto riconoscimento a chi, con non poco entusiasmo, sta riscoprendo di essere lauriota altrove. A modo suo, certo, ma pur sempre con un occhio rivolto al cuore del Mediterraneo. Con affetto e sentimento, come dicevamo all’inizio. In questo modo, anche le “pittelladas”, nel loro spirito goliardico, diventerebbero momento di recupero di un’identità sì certo lontana e distante, ma pur sempre originaria.
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA