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NONOSTANTE il solstizio d’estate, nonostante questo caldo già agostano che assedia l’insolitamente poco ventilata costa atlantica, ieri sera ho deciso di restare a casa a guardare lo speciale Tg1 sulla nostra regione. Come giustamente affermato da uno degli intervistati, non ho fatto altro che ritagliarmi una cornice di nostalgia, o per meglio dire di “saudade”, recuperando la memoria visiva di luoghi (e di alcune persone) che conosco bene, nonostante il distacco ormai più che decennale dal mio territorio. Virtù forse tutta nostra quella di diventare profondi conoscitori della nostra realtà quanto più se n’è lontani?

Il pezzo si intitolava “Matera Prima”, e neppure pochi minuti dopo la sua conclusione sui social network fioccavano commenti di sostanziale delusione. Da parte di alcuni che erano stati coinvolti nelle riprese, si lamentava il poco spazio concesso; altri ne biasimavano formato e stile. Mi pongo fuori da questo coro, apprezzando nel reportage l’intelligenza del cogliere un aspetto determinante, trattato con equilibrio e delicatezza: e cioè che la Lucania non è solo Matera, e che la stessa sfida della capitale europea della cultura si gioca su tutto il territorio regionale. È una sfida in cui si impone la necessità di coinvolgere tutte quelle piccole “lucanie” che compongono questa molteplice identità, fatta di accenti variabili, vocaboli diversi (tate, ma’ sire, ‘attàn solo per dire “padre”), dialetti differenti (vi ricordate, per esempio, dell’area Lausberg?). La Basilicata è uno specchio fedele della natura umana: difforme. E dei suoi volti: mica sono tutti uguali. Però se li componi (come i tasselli di un mosaico) possono dar vita a un’unica immagine. 

Sarà che non saprei distinguere un “montaggio analogico” (cit.) da uno digitale, sarà che sono emigrante, ma ci sono parti che mi hanno emozionato. In particolar modo, l’emotività è sorta vedendo i tesori di provincia: tra tutti, la cultura dei nostri lucani arbëreshë, asserragliati in quell’enclave di resistenza all’omologazione contemporanea che è il versante più aspro del Pollino. credo che la loro sia una presenza pedagogica molto importante in questi tempi di paure indotte, perché prova a farci capire (attraverso un esemplare esercizio di mediazione linguistica) che la nostra terra è una matrioska di piccole diversità, che poi però finiscono sempre per comporre una comunità. Di più, gli albanesi di Lucania costituiscono testimonianza di un fatto significativo: ossia che è da più di cinquecento anni che accogliamo migranti, in particolare quelli che fuggono da guerre e miseria. 

E lo facciamo consapevoli della ricchezza che traggono, una ricchezza umana e in questo caso anche artistica (che si traduce in mirabili manifestazioni iconografiche). In questi borghi dovremmo portare gli amici lucani dei Salvini e dei fomentatori d’inquietudini che a vario titolo abitano la nostra quotidianità: gli sarebbe utile. Nel mentre che ci si organizza per questa pratica umanitaria, prendete voi la macchina e andate a San Costantino o San Paolo: non smetterete di meravigliarvi nel prendere coscienza di quanto sia a noi vicino un linguaggio della parola, della fede e dell’arte che crediamo di altri mondi.
La nostra diversità come particolare di un tutto diviene sineddoche lucana di un linguaggio globale. Il gioco prova a farsi paradigma, d’alterità o di rovescio: l’uno e l’altro dipendono dagli aspetti che investono, assumendo di conseguenza l’una o l’altra funzione. Diciamo che si impone un’alterità sul piano interno, e un rovescio nel rapporto col mondo esterno. È comunque un processo agente, nel quale tocca a noi dettare tempi e modi. All’improvviso, ci troviamo a dover governare il passaggio dalla passività all’attività dell’azione; dalla subalternità al protagonismo. Lo facciamo ancora in modo non pienamente consapevole, è evidente; non siamo ancora coscienti del fatto che va compiuta la trasformazione del gioco in paradigma. 

Al rovescio si assiste in molte cose. Per esempio, personalmente lo noto nell’affievolimento della ricerca a tutti i costi di “luoghi di diversità”, che in passato ci portava in giro per l’Italia e per il mondo. Ognuno inseguiva il suo personale Eldorado scoperto tramite una lettura avvincente o un racconto appassionante di chi vi era stato prima di noi. Eravamo, sic et simpliciter, turisti altrove; e quando zaino in spalla ci imbattevamo in viaggiatori di altre latitudini, provavamo a dare le coordinate geografiche della nostra provenienza, constatando non senza fastidio come spesso fosse sconosciuta ai più.
Non che si debba smettere di viaggiare o di scoprire – lungi da me difendere ogni idea di “incastellamento” – ma è inevitabile constatare come oggi costituiamo il tentativo di geolocalizzazione forse più trendy a livello di opinione pubblica. Il mondo ha scoperto la Basilicata – soprattutto grazie a Matera 2019 – e un incontrollato desiderio d’esotismo vi vuole riversare eserciti di visitatori. Può essere l’occasione per riprendere un viaggio all’interno della nostra identità: insieme a chi viene da fuori, potremmo approfittarne per scoprire un elemento molto semplice e diffuso: il paesaggio. Che però, come sostiene Franco Arminio, è la cassaforte di questa regione.
Una cassaforte che va evidentemente aperta per essere riempita, non svaligiata. 

La Basilicata oggi è appunto un trend, ed è un bene, sia chiaro. È un bene che si moltiplichino le platee di osservatori di questo paesaggio a noi così familiare. La governance di questo fenomeno ha bisogno di saggezza lo sappiamo, ma non è questo il luogo per ipotizzarne virtuose condotte: non ho formule spendibili in poche righe, voglio solo invitarvi a godere con me di questa acquisita alterità. E del rovescio del nostro ruolo sulle rotte della scoperta.
Non è la prima volta che mi succede di programmare vacanze estive in Basilicata, ma il fatto che in tantissimi vogliano trovare ospitalità a casa mia mi dà quella rassicurante sensazione di essere un approdo, una meta, un porto che apro al visitatore con piedi fermi per terra. L’ancora l’ho gettata da tempo ed è nei fondali della mia cultura di formazione. Questa volta non mi tocca bussare, ma aprire la porta. È l’inversione in un gioco di ruolo che mi piace assai. E se divenisse paradigma, anche in questo caso?
Il rovescio si manifesta ad esempio nel divenire palinsesto televisivo, sempre più riprodotto perché sempre più ricercato. Nella desolazione della programmazione estiva, il reportage lucano porta la signora Brescia da San Costantino a dialogare col paese intero, cui manifesta i suoi timori per una lingua che si perde, e con genuina ingenuità contadina a suo modo colpevolizza lo Stato; quello che una volta – avrebbero detto i suoi antenati – arrivava, conquistava, tassava e depredava. Oggi saccheggia con la scuola le parole di una lingua che i suoi nipoti non conoscono più. In questa riproposizione tutta domestica di un risorgimento anch’esso rovesciato, in fondo la signora Brescia parla ai governanti e invoca un diritto sacrosanto: quello alla tutela delle minoranze, linguistiche o religiose che siano. Afferma il suo paradigma dell’alterità, che per lei non è mai stato un gioco, e che vorrebbe rimanesse tale perché lo percepisce come elemento di ricchezza. 

La scuola – dove per fortuna si continua a insegnare la lingua italiana, anche nei paesi arbëreshë – dovrebbe essere pensata anche in questo modo, in una sana concezione di coesione dei territori in cui il rispetto e valorizzazione del particolare contribuisce al rafforzamento del tutto (si chiamerebbe federalismo, ma non voglio allargarmi).
Infine – potremmo andare avanti con mille elementi che segnano il compimento di una diversità storica della nostra identità – mi piace pensare a un rovescio ancora in divenire.
È utopica e sarebbe degna della penna di Tommaso Campanella. Quella di una “terra del sole” in cui chi vuole può tornare a rafforzare coscientemente il valore sociale ed economico di questa affermata diversità. Che come tutte le mode, anch’essa rischia di perdersi, o di esaurirsi in breve tempo, nel mancato compimento del passaggio dal gioco al paradigma, alla norma valoriale che si fissa come programma comune. Ma a questo punto credo proprio che l’immaginazione abbia preso il sopravvento sul reale e sul possibile, e la tv ha compiuto il suo dovere, che è quello di creare illusioni.
Rimane però un convincimento: che anche “l’essere lucano” può essere parafrasato in maniera diversa, fuori da schemi interpretativi che hanno fatto il loro tempo, e che vanno rovesciati per affermare “altro”.
D’altronde, anche nei Sassi di Matera una volta si aggiravano somari e maiali, e oggi ci sono le grotte a 5 stelle.

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