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Sono passati appena quindici giorni dall’inizio del nuovo anno e le strade dei paesi della nostra regione sono già assediate da una desolazione profonda, e purtroppo usuale di questi tempi. Finite le feste, cessati gli incontri con parenti amici nelle case e nei bar, svanisce per disincanto il calore di una terra che si compone e decompone nei volti della sua diaspora, mentre sull’aspro paesaggio montano ripiomba un silenzio pervasivo, come una cappa sulla meta-coscienza della precarietà esistenziale che dal Noce si espande fino alla foce del Bradano.
Gennaio è il mese più triste perché si porta via la nostra gente, strappa i figli a una madre che non ha più la forza per trattenerli, sfiancata dall’eterno rinnovo di questo rito che consacra solamente la fertilità disillusa. Non che tale ratto avvenga unicamente in questa stagione: una terra di emigranti è tale perché si gonfia e si sgonfia come il mantice di una fisarmonica; una terra di emigranti è tale perché è una porta scorrevole di un albergo a ore.
Gennaio è il mese più triste perché riempie le notti ghiacciate di volti solcati dalla rassegnazione, dall’angoscia del distacco, dalla condanna alla fatica, fosse solo la fatica di un viaggio senza senso. È grossomodo una scena collodiana quella a cui si assiste in ogni piccola autostazione dei nostri paesi: un viavai senza tregua di carovane anima la partenza dei lucani (odierna e democratica deportazione delle nostre forze più vive), allineati all’addiaccio col biglietto in mano. Ma non è il paese dei balocchi la meta indicata sui display luminosi; sono città grigie e spesso fumanti di precarietà (perché di fabbriche ormai non c’è neppure l’ombra) quelle che inghiottiscono i lucani che partono. Le giacche di queste donne e di questi uomini si impregnano rapidamente del tanfo acre dell’acciaio metropolitano, che va a sostituirsi alla tenue traccia olfattiva lasciata dalla spugna desunta dei sedili, sui quali hanno trascorso un’intera notte di viaggio. Sulle mani esposte al freddo di un’altra latitudine cade il riflesso opaco dell’ambiente cittadino, piegato all’etica calvinista del dovere e del grigiore.
Discesa la scaletta del bus, raccolte le sue cose, il lucano si lascia inghiottire dalla moltitudine informe, sperando di conservare fino all’ultimo anelito un barlume d’identità; spera di restare cosciente il più possibile e rimandare lo smarrimento sensoriale, di conservare quella sensibilità alla vita delle origini che custodisce in un bagaglio non solo immateriale. Lo aiuta, infatti, una valigia piena di tesori del palato che ogni madre ha accuratamente preparato il giorno prima della partenza, tesori che il lucano dividerà con i tanti compagni di viaggio, venuti da chissà dove e incontrati sugli stessi cammini lastricati di sacrificio; e lo farà alimentando non solo il corpo, ma soprattutto la speranza, perché sa che gennaio è il mese più triste e diventa un po’ meno triste se si spezza il pane insieme.
Laggiù, nella nostra terra, a presidio del nulla si dispiega un esercito di madri votate all’eterna commozione: lamentano abbandono e lontananza, ma tra esse molte deplorano anche la beffa tutta meridionale dello sviluppo mancato, proiettata nella convinzione di avere il culo appoggiato su un oro che dicono di colore nero, sebbene di nero null’altro vedano se non la tenebra intorpidente delle nostre contrade desolate. Gennaio è il mese più triste perche è in esso che, da troppo tempo ormai, rinnoviamo il distacco dall’unico grande sogno comune: tornare a casa, costruire un grande futuro, tutti insieme.
Eppure, il vero problema non è che Gennaio sia il mese più triste, o che si parta per trovare migliori condizioni di lavoro o solo per conoscere altre genti e altri luoghi; bensì che ci facciamo sempre fottere dalla nostalgia. La verità, forse, sta nel fatto che bisogna andare via, per molto tempo, per ritrovare al ritorno veramente la nostra gente, la terra, dove siamo nati.
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