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Molto si sta scrivendo in queste ore su quanto successo venerdì 17, e continuare a farlo significa assumersi il rischio di apparire pleonastici, di cadere nella banalità. Però concederete a chi non può godere direttamente dell’entusiasmo diffuso che investe la regione di esprimere la sua, non come forma di sfogo, bensì di partecipazione. Ebbene torniamo a quel fatidico venerdì 17 (una data ormai riabilitata), per capire cosa ha provato un lucano all’estero.
Sono da poco passate le 17 (qui in Portogallo navighiamo con un’ora di ritardo rispetto a voi), apro la pagina di un noto quotidiano nazionale on-line e mi ritrovo Matera capitale della cultura. Bene, mi dico, finalmente è fatta. Leggo subito dopo le parole di Franco Arminio, il noto “paesologo”, che si compiace del fatto che Matera è ritornata a essere un “luogo bellissimo”, con un’energia “che non troveremo mai a Novara o a Pavia”.
Se su quest’ultima affermazione incontra il mio consenso, sul primo punto non gli do tanto ragione, perché Matera l’ho sempre trovata bellissima, fin dalla prima volta in cui la scoprii, tanti anni fa; come ho sempre trovato bellissime città inscurite dalla loro decadenza strutturale, come Porto o Lisbona, o Tangeri, luoghi soggetti a un invecchiamento che non combacia necessariamente con la decadenza morale. Ragionando su questa falsa riga potrei affermare – ma lo faccio solo come esercizio retorico – che Milano è molto “più sporca” a causa dell’oscurità crepuscolare del suo capitalismo finanziario.
Poi però Arminio dice una cosa che mi fa commuovere: “dovremmo trovare il modo di far tornare qualcuno […] non si può fare il futuro senza giovani. Molti ragazzi lucani sono andati via. E invece dobbiamo investire sull’utopia meridiana, incrociata allo scrupolo nordico”. Mi commuovo perché a furia di sognare un ritorno attivo e fattivo sono diventato adulto, e con me tanti altri. Tanti come me che provano a operare nel campo della conoscenza e della divulgazione culturale, immersi in un mare di instabilità e precarietà. Si sogna ogni giorno, si sogna di poter tornare per dimostrare a casa propria quanto valore si ha, quanto si può contribuire. Per casa nostra e a casa nostra. Il fatidico venerdì 17 produce le sue prime, intense sollecitazioni emozionali.
Le lacrime ricompaiono verso sera, la scena è di puro neorealismo, a dettare i tempi della modernità ci pensa la connessione internet che salta proprio nel momento in cui un noto canale di informazione giornaliera dà la notizia della proclamazione. Non mi arrendo e sintonizzo le frequenze (si fa per dire) sull’edizione on-demand del Tg3 Basilicata: da una “casa portuguesa” passiamo rapidamente in una sala da pranzo di una Lauria anni ’90, quelli della mia adolescenza,in cui il Tg3 era la chiamata a raccolta al desco. E cosa vedo nelle immagini del Tg3? Un vecchio signore dalla faccia bruna e rugosa che piange in piazza San Giovanni. Piange perché nel rito di antropomorfizzazione della sua città, del luogo di scansione dei suoi tempi e dei suoi sentimenti, vede quella bella ragazza povera alle prove di vestizione di uno sfavillante abito da sposa. Bianca e bella, sembra una principessa. Piange, perché nessuno potrà più biasimarla. Piange che sembra un padre, e invece di quella bella ragazza è un figlio. La festa che segue sarà un lungo addio al nubilato, e durerà 4 anni: festeggiamo, perché stiamo per celebrare le nozze della notorietà, lo sposalizio dell’emancipazione.
Le immagini creano suggestione, ma la parete bianca ci riporta alla dura realtà: non mi faccio illusioni, sfuggo alle tentazioni oniriche e rifletto sul fatto che nel 2020 è molto probabile che la Basilicata non avrà ancora risolto gran parte dei suoi atavici problemi; sarà un luogo con più trivelle e con un tasso di emigrazione pressoché immutato. Smentire solo una di queste fosche prospettive significherebbe compiere una “rivoluzione”. Matera2019 ci può aiutare? È quello mi aspetto da un evento del genere, dalle nostre olimpiadi. Un’economia nuova per una vita nuova.
La giornata si avvia a conclusione e il lucano all’estero riflette sul fatto che Matera è, dal fatidico venerdì 17, una capitale del mondo. Lo avevo già detto qualche giorno fa. È riduttivo pensare che il portato simbolico di questa designazione sia limitabile al ruolo oneroso di capitale europea della cultura. Matera è da quel giorno un paradigma di capovolgimento dello stereotipo: da “vergogna” a “meraviglia”. Lo stereotipo funziona su un’identità binaria: per respingimento o per identificazione. Il primo processo ce lo siamo lasciati alle spalle, ora tocca lavorare sul riconoscimento, sull’offerta, sulla scoperta della nostra identità: chi siamo, chi diventeremo, che cosa proporremo per identificarci e far identificare Matera come luogo simbolo non solo di una altro modo di fruire cultura, ma di un altro modo di vivere, che mi è parso uno degli slogan più utilizzati nella perorazione della causa.
Ai protagonisti di questo successo – a tutti i lucani,ma in particolar modo al comitato promotore – bisogna dire grazie per aver contribuito innanzitutto alla rottura degli schemi definiti della sudditanza e subordinazione “post-coloniale”: sono stati bravi a praticare le rotte dell’irraggiungibile, a raggirare il totem della lontananza innestato da tempo immemore nel nostro immaginario collettivo, e al quale si è sempre immolata la convinzione dello svantaggio insito nell’essere o venire da siamo nati tutti noi; un modus pensandi che ha sempre avuto vita facile a imporsi sulla voglia di fare, di insistere, di andare avanti. La loro ostinazione si profila come la migliore delle qualità umane, come il più deciso esercizio di convinzione. Ecco, questa è Matera2019, finalmente ho trovato le parole: un esercizio di convinzione.
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