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IL GIORNO DOPO è quello degli interrogativi della gente comune, è quello delle lacrime e della rabbia dei familiari, è anche quello in cui il cerchio che gli investigatori hanno iniziato a disegnare, nell’immediatezza del fatto, si chiude.
Il capitano dei Carabinieri Milone è stato estremamente chiaro quando nelle prime ore successive alla strage di San Fele, ha parlato di un raptus per indicare la causa scatenante il folle gesto di Vito Tronnolone, che ha sterminato la sua famiglia, prima di compiere l’ultimo estremo atto su di sè.
Da un lato, adesso, ci si interroga sul motivo che ha portato, sabato mattina, il sessantacinquenne lucano a fare fuoco, in rapidissima successione prima sul figlio Luca, poi sulla figlia Chiara e poi sulla moglie Maria Stella.
Si sono avanzate le più disparate ipotesi, da quelle relative allo sconforto e alla disperazione per la situazione del figlio autistico, a quelle attinenti lo stato di salute dell’uomo, appena reduce da una visita all’ospedale di Melfi, dopo la quale aveva deciso di non trattenersi, firmanodo le sue dimissioni.
Allo stato attuale sembra che nessuna di queste piste sia plausibile, per quanto è stato possibile dedurre dalle prime sommarie informazioni che i carabinieri, coordinati dal pm Anna Gloria Piccinini, hanno assunto tanto a San Fele, quanto a Lastra in Signa, paese in cui la famiglia Tronnolone risiedeva da più di trent’anni.
L’amore per il figlio Luca era viscerale, sia pure con gli alti e bassi che una situazione simile provoca in ogni genitore. Lo hanno testimoniato i vicini di casa che hanno parlato di una famiglia tranquilla, serena, specie quando uscivano con Luca o quando lo accompagnavano a fare qualche visita o da qualche operatore che lo teneva in assistenza.
Così come lo stato di salute dell’uomo non destava preoccupazioni eccessive o, quantomeno, tali patologie da mettere in dubbio la forza fisica per badare al proprio congiunto e al suo futuro.
Ecco allora che l’obiettivo degli inquirenti si sposta sull’arma del delitto, una P38 mai in precedenza usata.
Perchè Tronnolone – che aveva la passione del tiro a segno – ha deciso di portare con sè l’arma e un fucile, entrambi regolarmente detenuti, ben sapendo di contravvenire a un divieto specifico per i possessori di armi? E’ obbligatorio, infatti, denunciare alla Questura l’eventuale spostamento delle armi detenute, visto che la pistola e il fucile dovevano essere custoditi nella casa toscana, cosa che Tronnolone non ha fatto.
La paura, probabilmente, di qualche furto in Basilicata, nella villetta appena ristrutturata e localizzata in una zona periferica e in campagna rispetto al centro del paese? O cosa altro?
I carabinieri stanno valutando anche la premeditazione, anche se logicamente, leggendo le frasi che Tronnolone pubblicava sul suo profilo facebook sembra un’ipotesi lontana dalla realtà. Chiaramente, però, anche questa non va sottovalutata da parte degli inquirenti che, nel frattempo, oltre ad aver sentito già quanti avevano rapporti con la famiglia Tronnolone, hanno anche provveduto a sequestrare il personal computer trovato nella casa fiorentina.
LA RICOSTRUZIONE
VITO TRONNOLONE ha impugnato la sua P38, mai usata precedentemente, ed ha deciso di sterminare la sua famiglia. Gli inquirenti stanno cercando di ricostruire cosa è accaduto in quei pochi istanti, intorno alle 6,30 di sabato mattina.
Con ogni probabilità il primo colpo è stato sparato alla testa del figlio Luca che era in bagno, poi l’arma è stata rivolta verso la figlia Chiara che era in camera da letto. La moglie di Vito, Maria Stella, ha tentato la fuga, probabilmente è stata anche strattonata ed è caduta in terra, da quanto è trapelato pare che per questa ragione il primo colpo sparato sia andato a vuoto, ma il secondo l’ha centrata in pieno volto.
Vito ha avuto, in quell’istante, anche la lucidità di chiamare la sorella in Toscana: «Ho ammazzato tutti, ora mi ammazzo io», avrebbe detto, un istante prima di premere per l-ultima volta il grilletto sulla sua tempia. Cinque colpi, di cui uno solo a vuoto, per una strage che ha ricordato quella di Genzano di Natale del 2011, quando per mano del pensionato Ettore Bruscella, furono uccisi Maria Antonietta Di Palma, 55 anni, e i suoi figli Maria Donata e Matteo Menchise.
Vito Tronnolone, la moglie e il figlio Luca erano arrivati a San Fele una ventina di giorni fa, mentre Chiara era giunta in Basilicata solo due sere prima del triplice omicidio. Tutti insieme avrebbero dovuto trascorrere un periodo di vacanza nella villetta di campagna, ristrutturata da poco e con non pochi sacrifici da parte dell’ex carrozziere, dove ieri sono stati scoperti i quattro cadaveri.
a.pecoraro@luedi.it
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