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C’era una cosa che da caporedattore teorizzavo e tentavo invano di praticare: uscite fuori dalla newsroom. E non solo nel senso di andare a caccia di notizie, ma in quello più difficile di una dematerializzazione della redazione. Oggi più che mai penso: contano le idee, irrilevante la sedia dove ti collochi, anche perché quell’idea nasce e lievita nell’immateriale dimensione allargata. Il 2013 è stato per me l’anno in cui ho messo a punto una nuova professione nel momento più tragico della storia dell’industria del giornalismo. Forse per questo la più avvincente. E’ una storia di iniziazione, la riepilogo così
1)A febbraio la decisione degli editori Antonella e Francesco Dodaro di nominarmi direttore responsabile del Quotidiano della Basilicata. Al giro dei 30 anni di professione, molti dei quali passati a inseguire cadaveri. Ecco, se dovessi dire, qual è stata la prima vera grande trasformazione è l’essermi resa conto che dovevo iniziare a inseguire i vivi. Un buon giornalismo non nasconde, ma deve cercare anche di far emergere
2)Digital first. E’ stato il vero oceano della conoscenza. Sono ancora in immersione. Nuova cultura, relazionabilità, cessione di monopolio, content curation. Quest’ultimo punto mi ricorda, in fondo, la derivazione della sintesi della notizia a macchina. Erano (e sono ancora) quelle che sul giornale rappresentano la prova della sciatteria o della cura di un buon giornalista. Ma su una cosa non mi arrendo. Nessuna curation può mai competere con un fatto. E in quest’anno di mia direzione alla guida del Quotidiano ne conto parecchi di fatti raccontati in perfetta solitudine. Grondano richieste di risarcimenti, al limite del ricatto. Che tipo di relazione è possibile rispetto a questo tipo di fatti?
3)La trasparenza rispetto a un obiettivo. Mediare i toni, offrire accoglienza, connettersi con la comunità. Una grande conquista. Che non può compromettere l’autonomia. Accompagnare il percorso di crescita e di evoluzione di un luogo significa avere la pazienza di non sbraitare ma anche di riconoscere la densità di un problema rispetto al bluff che nasconde rabbia. Umana, ma da guidare. Qui le relazioni diventano più complicate. Il presupposto è ragionare su una visione ampia difficile da allargare rispetto a un quadro vivisezionato dall’emergenze dei bisogni.
4)The book in on the table. Mi sentivo a disagio, da adolescente, in riva al mare con i miei coetanei tedeschi o olandesi. Parlavano perfettamente l’inglese, ma nell’albergo convento dei francescani a Maiori, quello degli amici di Rossellini, strinsi una forte amicizia con Thomas e Wolfgang. Mi sembrava strano anche lo stampato minuscolo con il quale scrivevano le lettere che mi inviavano. Ma furono l’inizio di una catena. Il mondo mi si aprì con i penfriends. E ogni lettera conteneva una foto. Conservo ancora quelle di un turco o di un birmano. Mondi sconosciuti a portata di posta e di un inglese troppo presto abbandonata al ginnasio. Lo so, lo so, la nostalgia non è una strategia, ma vedo in quelle connessioni di una vita fa il prologo della rete social dei nostri giorni.
5)Sarà un altro anno da inventare. E per questo stimolante. frazionarsi, frammentarsi, inseguirsi e rilanciarsi. L’altalena è divertente e utile. Ma c’è un problema industriale da affrontare. La necessità sociale di sostenere un buon giornalismo, problemi aziendali ed occupazionali che ci immergono nella palude nera della sostenibiltià economica del nostro lavoro. Lavoro a rischio. Anche nel senso che ancora per esso si muore. Scrivo e leggo sull’huffington che alla fine sono settanta i giornalisti morti sul lavoro quest’anno. Più di uno a settimana. A questi colleghi dedico il mio saluto di fine anno. Ho promesso di occuparmi dei vivi, ma sosteneteci perché continuiamo a essere vivi.
Buon 2014
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