X
<
>

Share
3 minuti per la lettura

NOVA SIRI – Al ragazzino che gli taglia la strada con la bici riserva un simpaticissimo “Uaglio’”. Si rivelano lì le origini salernitane del nonno paterno, emigrato in Usa. Pochi minuti prima lo si osserva mentre culla con fare affettuoso la sua piccola Anna, neonata di cinque mesi avuta dalla compagna italiana Cristina. E’ un Abel Ferrara perfettamente integrato, quello che in questi giorni si vede in giro per le strade di Nova Siri.
Integrato con il centro jonico, ma soprattutto connesso perfettamente con quello che il direttore Franco Rina chiama “lo stile Cinemadare”. Ovvero un contesto dinamico di dialogo, condivisione, effettiva convivenza tra giovani registi. Dove si fa squadra, comunità. Ferrara non si atteggia da star. Al contrario dialoga, concede foto, si rende disponibile alle domande di tutti, anche le più semplici e banale. Fa così anche alla masterclass, seminario di fronte a 92 giovani filmaker. Deve insegnare, da Maestro quale è, come si fa cinema. O meglio, comunicare come lo fa lui. Si presenta così. «Salve… sono un giovane film maker come voi… un giovane filmmaker di 64 anni». Sembra stia scherzando, ma non è così. «Mi sento esattamente come quando ne avevo sedici, cioè con la stessa voglia di esprimere me stesso. Non è cambiato nulla». E’ già arrivato al punto, all’origine e al cuore del proprio cinema: la voglia di esprimere ciò che ha dentro sé. «Questo conta, il resto sono cazzate». “Bullshit”, dice. Sono bullshit “successo, classifiche, critica”. Tutto ciò che è ostacolo all’espressione di sé. «Quello che conta – dice scaldandosi – è il vostro fottutissimo cuore». “Fucking heart”, ripete tre volte. L’americanissima parolaccia-aggettivo diventa un must, quasi un intercalare di tutte le sue frasi. «Siamo come i fiocchi di neve, non ce n’è uno uguale a un altro. Dovremmo tutti partire solo dalla voglia di esprimere questa stupenda unicità». Sembrerebbero slogan comuni, non lo sono detti da chi, pur di esprimere sé, non ha temuto, e anzi spesso ha cercato, scandalo e rottura. Sulla critica, poi, dice una cosa illuminante che va oltre il cinema. «La critica dovrebbe partire dall’amore, cioè dal fatto che un’opera ti piace, ti colpisce perché stabilisci una connessione con essa. Se non apprezzi un film vuol dire che ci hai trovato nulla, allora zitto, vaffanculo, non ne parlare. Ma perché, anziché dire che non lo capisci, ti metti a dire che non ti piace, che manca questo o quest’altro? Non dovrebbe esistere la critica senza amore». Dopo un’ora di fitto botta e risposta su questa lunghezza d’onda si va via con l’impressione di non aver appreso nulla di concreto, almeno sul piano tecnico. Eppure sul volto di quei giovani registi è dipinto quell’entusiasmo di chi, atteso da una nuova sfida, è stato caricato a dovere dal miglior coach. Come se davvero ci fosse solo quello da fare: mettere in gioco quel “fottutissimo cuore”. Quei ragazzi hanno l’aria di chi non ha imparato molte cose nuove, ma di certo ha risentito vibrare quella essenziale.

Share

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

Share
Share
EDICOLA DIGITALE