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POTENZA – Una milf sessantenne dal nome che mixa quello di due scrittrici realmente esistenti – la politica Sandra Bonsanti e la Giuseppina Torregrossa del “Conto delle minne” – e un turbinio di vicende e personaggi ad animare una specie di versione aggiornata del “pasticciaccio” di Gadda.
C’è questo e molto altro, ad esempio una scrittura scoppiettante e ironica, in “Scambi, equivoci eppiù torbidi inganni” di Gaetano Cappelli (Marsilio), titolo wertmulleriano anche se non quanto il “Romanzo irresistibile della mia vita vera raccontata fin quasi negli ultimi e più straordinari sviluppi” (2012) e la “Storia controversa dell’inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondo” (2007).
In meno di 200 pagine lo scrittore potentino offre dei quadretti di vita quotidiana più o meno meschina, sempre però strappandoci un sorriso. Lo scrittore mantenuto ed erotomane figlio di inappuntabile generale, il deputato inquisito con moglie stagionata ma piacente – è lei la milf tendente al gilf, nella dizione invalsa ai nostri giorni (le prime lettere dell’acronimo non proprio edificante stanno a significare rispettivamente mamma e nonna in inglese).
«Per la prima volta, in un mio libro non c’è neanche una parola sulla Basilicata», ha detto Cappelli l’altro ieri sera nel corso della presentazione-aperitivo alla Ubik di una via Pretoria che regalava uno sfondo da fiction col suo struscio serale al di là della vetrina. La Basilicata è in realtà presente benché in absentia: basta pensare al villaggio turistico sequestrato sullo Jonio o al magistrato innamorato dei titoli da prima pagina e attratto dalla politica («ma più impunito dei politici»), che in parte ci ricorda una recente – e anzi mai finita – stagione di indagini e processi mediatici in salsa lucana.
Scambisti e idraulici alla Alain Delon con nome da mitologia greca, salotti, maschi alfa e beta soggiogati da tacchi 12, telefonate erotiche e amplessi dialogati “doggy style” e palestre di una Capitale corrotta come da celebre titolo dell’Espresso, in una fenomenologia a metà fra la Grande (e vacua) Bellezza eternata da Sorrentino e la città Cafonal magistralmente raccontata, anche per immagini grazie a Umberto Pizzi, dalla spia web Roberto D’Agostino.
Cappelli aggiunge uno spessore letterario a questa varia umanità di vip, “fattoni” e coatti alla Riccarda di Tor Bella Monaca che legge le 50 sfumature e cita gli aforismi veicolati dal web e buoni per tutte le stagioni. C’è molto sesso ma mai descritto, vivaddio, in termini oleografici o sentimentalisti o al contrario triviali.
Magari Potenza nasconde un sordidosottobosco orgiastico e postribolare che va al di là dei racconti (fantasmagorici?) da bar su escort e affini, comunque alimentati da passaggi di figure femminili esotiche e appariscenti che scivolano tra i vicoli credendosi invisibili. «Potenza è una città vitale e la Basilicata una regione in movimento verso la modernità. Io preferisco il cemento al tufo, ai calanchi amati da Rocco Scotellaro i balconi di Potenza che hanno retto bene, penso di rimanerci e non in senso tanatico» ovvero funebre, ha risposto sorridendo Cappelli alla sollecitazione puntuta di uno di quei personaggi alchemici del corso principale del capoluogo, un compulsatore di foglietti e libri e giornali e riviste di ogni formato, una bella maschera che fa parte della galleria antropologica “potenzese” più del vecchietto con occhiali da sole hipster che saluta i viandanti augurando loro la sodomia passiva — giusto per usare un eufemismo.
Il romanzo si fa leggere di getto. Da declamare magari nel mezzo di una cena tra amici o durante una rimpatriata agée la pagina sul disfacimento dei corpi letto attraverso le leggi della fisica combattute dalla chimica delle magiche pasticche blu che tutto innalzano, anche muscoli prossimi alla necrosi. Su tutto aleggia quel senso di ironia che l’autore elegge a poetica già nell’esergo mozartiano («Lei deve abituarsi alla vita e deve imparare a ridere»). Una cifra stilistica che darebbe forma a un film o meglio ancora a una pièce teatrale leggera eppure implacabile nel descrivere le manie, l’ipocrisia e la doppia morale dell’uomo moderno, una sorta di romanzo di formazione collettivo.
La lingua di Cappelli è in realtà una neolingua che mescola anglicismi e dialettismi, parolacce e lessico famigliare in un gramelot alla Dario Fo che sulla pagina si rende con un reiterato utilizzo del corsivo, usato anche per le onomatopee – spesso parole biascicate – che danno al testo un tocco di futurismo un po’ come quelle K piazzate sovente proprio dall’ingegnere Gadda.
Per Cappelli la scrittura è necessaria prima che valvola di sfogo o foga comunicativa fine a se stessa oppure accademia o, peggio ancora, produzione seriale a favore del ciclo continuo editoriale che tutto omologa e tutto pialla, gusti compresi: Cappelli è l’unico scrittore italiano che nel risvolto di copertina rivendica di pubblicare pure su facebook e twitter – le parole sono morettianamente importanti anche sui social, giusto – e dissemina le sue perle di potentinità in pubblicazioni che spaziano dalla free-press giovanilista in cui infila una descrizione sentimentale di via Pretoria alla rivista super-seriosa del consiglio regionale in cui smonta i luoghi comuni del levismo, passando per testate locali (come la nostra) dalle quali urla la necessità fisiologica di essere un dandy felice e gaudente pur essendo nato nella città soi disant più triste d’Italia. Leggete questo romanzo anche solo per averne conferma.
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