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UNA settimana a Taranto per raccontare il set del cortometraggio “Thriller” tra religione, mare, pescatori e la polvere rossa dei Tamburi. Ho incontrato molta fede in quei giorni trascorsi a Taranto a lavorare sul set di Thriller, il nuovo cortometraggio di Giuseppe Marco Albano. L’ho incontrata nei gesti e nei volti, negli angoli più impensati di questa città e nel dolore degli occhi di chi la vive, la abita, la respira amaramente. Ho scattato foto durante questi giorni, per provare a rendere fermo e intenso l’odore del mare, quello delle polveri dell’IlVa e del dolore che piange lacrime rosse di paura e rabbia. C’è un Dio in ogni angolo che ho visto e respirato. C’è un “Personal Jesus” per ogni pezzo di Taranto e per ogni suo cittadino. Che sia l’icona del santo, che sia il mare, che sia il sole che splende caldo e dritto sulle mani e sulle finestre, o che sia il lavoro che fa paura, che non puoi non respirare, che colora di rosso il cuore e la memoria.
E questo “Personal Jesus” è nei racconti di chi mi ha accompagnato in questi giorni, nelle storie ascoltate e lette, in quelle che non si raccontano e in quelle che vorresti urlare. Sono passati alcuni mesi dallo scoppio del caso mediatico, ma non c’è silenzio intorno al dolore di chi coltiva ancora una speranza o di chi ha perso la vita respirando.
“Taranto aveva una grande ricchezza, le cozze”, quelle che un pescatore con orgoglio e sconforto ha chiamato “l’oro nero di questa città”. Il pensiero va a quella famosa battuta del grande Totò “Queste ostriche puzzano. Dite che sono venute da Taranto? Allora sono venute a piedi, facendo una puntatina a Gorgonzola. Comunque, che puzzino o no, per me fa lo stesso”. (Totò cerca moglie, film, 1950). Ma l’odore più forte è quello che prende alla gola quando attraversi le vie del rione Tamburi, un non luogo dove la vita ha una sua profonda dignità, dove gli estremi convincono, e dove dolore e morte sono così presenti da scandire il passaggio del tempo, dei mesi e dei giorni. Reach out and touch faith. Il tocco, di chi cerca e trova nel suo mare il pane di tutti i giorni, la vita che scorre e che si costruisce pezzo dopo pezzo. Quel Dio che nasce e vive nel mare, quel mare sul quale si riflette l’onda lunga del fumo nero e della polvere rossa. Ma è un mare che ha storia e poesia, che porta via lontano e che accoglie sulle sue sponde come una madre fedele e rassicurante. Come in quel Mare piccolo in cui i pescatori con le loro piccole imbarcazioni approdano dopo una mattinata di lavoro e raccolto.
Le parole.
Ci sono alcune parole che, purtroppo, i bambini del Tamburi hanno dovuto imparare in fretta. Divieto, neoplasia polmonare, paura, morte. Parole che ricorrono e si rincorrono, come invece dovrebbero fare i bambini con il pallone o con le biciclette nelle ore più calde del pomeriggio, ma che un divieto non gli permette di fare. Non poter essere bambini al tempo dei bambini, non poter vivere lo spazio ed il tempo dell’infanzia e dell’adolescenza fori dalle mura di casa. Mura che raccontano le ore ed i minuti dei giorni e del lavoro dei padri, che hanno il respiro della città di quel colore rosso che è la paura che gira nell’aria. La paura, la rabbia, la dignità della vita, la rassegnazione umana e debole.
Aver girato lì le scene di Thriller, provando a raccontare il riscatto di una generazione a cui il genio dell’artista affida la rinascita di quella terra è un fatto. Non scontato, non banale, non coraggioso ma di amore per la vita e della verità. Così come non può essere inutile parlare di Taranto anche quando le telecamere sono rivolte altrove. Non stanchiamoci di farlo. Come il respiro, lo sguardo, la gola che fa male e gli occhi che si gonfiano.
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