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«È stato smarrito un portafogli vicino alla Chiesa Madre, una lauta mancia a chi lo trova». La macchina con altoparlante va per le vie del paese vuoto, finestre chiuse nel grigio della piazza. Ogni un po’ torna, l’altoparlante gracchia, l’autista regola il volume.

«È stato smarrito un portafogli vicino alla Chiesa Madre, una lauta mancia a chi lo trova, oggi mercato dalle sette alle tre del pomeriggio, Nardino vende carne fresca appena macellata, sono arrivate le stoffe dalla Gisella». Il paese vuoto cigola con le finestre che cominciano ad aprirsi, il campanile fa scoccare un quarto alle sette per dire della Messa, le vecchie e due uomini imbastonati escono dai portoni puntuali, una macchina con autista arriva davanti alla Chiesa, scende donna Filomena con Caterina, la governante. 

Il prete si veste: la tonaca, il cordone, la stola, la pianeta e va all’altare.
A sole fatto si spalancano le finestre, qualche portone si apre come il caffè nella piazza. Tutto nel silenzio che parla di un paese senza l’anima, le persone si guardano e passano, non un vocio, non un richiamo.
Nel paese senza memoria tutti fanno la stessa cosa ogni mattina, ogni giorno, ogni sera.

Qualcuno crederebbe che il mercato è pronto per essere assaltato dalle donne in cerca di vesti o scarpe o strofinacci o pentole a buon prezzo o dagli uomini davanti agli ambulanti che mostrano ferri del mestiere. E qualcuno crederebbe che davvero un portafogli sia stato smarrito e che Nardino abbia la carne fresca.

Non è così perché nel paese senza memoria tutti rifanno l’ultima cosa prima della dimenticanza e, con il passare dei giorni, nessuno riconosce nessuno.

Hanno imparato a procurarsi il cibo per obbedire solo all’istinto e ognuno lo fa per se. E così un bel giorno il paese senza memoria sfumerà senza che qualcuno possa ricordarlo.
D’un tratto si sveglia preso di mira da un sogno possibile. Cerca di distrarsi, televisione, canali inseguiti, il libro da leggere per un po’ di fogli, ma il grigio delle immagini e la paura della dimenticanza lo accompagnerà per tutto il giorno.

Si guarda attorno, prende un caffè, incontra persone, con alcune si ferma, una chiacchiera, uno sguardo al tempo brutto che pare non si decida a smettere.

Eppure qualcosa non va, gli sembra di essere in un luogo senza presenza. I suoi abitanti sembrano muoversi guardandosi attorno con diffidenza, si incontrano e si lanciano sfiducia, pare che ognuno viva solo per sé per furbizie, accattonaggi, moine con i piedi attaccati solo al pavimento che tocca.
Ma come è possibile non essere presenti?

Siamo ospiti di passaggio su questa Terra, pellegrini che dovrebbero rispettarla stando in punta di piedi, con il compito di fare la nostra parte perché non sfumi come il paese senza memorai.

Abbiamo il compito assegnato di sentire l’onore, la fortuna, il lusso, la meraviglia di abitarla ma non è possibile senza la memoria, la trasmissione delle voci, dei gesti, delle narrazioni di quelli che l’hanno abitata prima di noi. Senza il ricordo non è possibile stare con i tacchi alti pronti a spiccare il volo, a lanciarsi in avanti, verso qualcosa di superiore,
Cristo, che ben conosceva i cuori e le menti dell’uomo, aveva iniziato la sua prima predica con questo imperativo greco: metanoéin, letteralmente “cambiare mentalità”, cioè cambiare vita, convertirsi. Eppure quasi mai siamo capaci di vivere questa richiesta del Signore, avvolti come siamo dal gas inerte dell’ozio, dell’abitudine e della convenienza, compagni dell’indifferenza e della mancanza di cura.

Nel tempo della Pasqua dovremmo ricordarcene. Con l’ardore che viene dal voler cambiare vita renderemo vivo il posto che ci è stato destinato e porteremo a termine il compito che ci è stato assegnato.
Nuovi inizi ci aspettano.

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