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LA presentazione di una proposta da parte dei deputati Morassut e Ranucci, che prevede il ridisegna mento dei confini e l’accorpamento delle regioni italiane, sta suscitando un interessante dibattito, anche sulle colonne di questo giornale.
Una classe dirigente che si rispetti – così ci hanno insegnato – ha la capacità di anticipare i processi per governarli. Il dibattito pubblico lucano, sempre ammesso che esista qualcosa del genere in Basilicata, è in ritardo sulla questione. Ma si tratta di un banco di prova decisivo e di una svolta che, potenzialmente, avrà conseguenze importanti per il futuro dei nostri concittadini. Paradossalmente, una situazione del genere può obbligare la nostra comunità, dopo un bagno di umiltà, a confrontarsi con il principio di realtà e ad uscirne rafforzata.
A nostro modesto avviso, il processo di ridefinizione dei confini regionali non è eludibile, per varie ragioni. Innanzitutto, si tratta di un fenomeno che interessa anche altri ordinamenti. Per esempio, in Francia, dove pure le regioni hanno meno poteri che in Italia, l’argomento è dibattuto proprio in questi giorni.
L’Italia è in una situazione drammatica, con un debito pubblico che sfiora il 140 per cento del PIL e con le istituzioni regionali colpite da ripetuti scandali nel corso degli anni. Il nostro Paese ha bisogno di recuperare credibilità rispetto ai partner europei e alle istituzioni economiche internazionali. Per questi motivi, sfoltire il numero dei centri di spesa e degli enti con potestà legislativa è importante, anche per la modernizzazione e un più efficiente funzionamento del nostro ordinamento. Inoltre, i confini delle nostre regioni rappresentano un paese che non c’è più. L’Italia ha subito trasformazioni sociali ed economiche importanti dall’entrata in vigore della nostra Costituzione, ed oggi è forse il caso di ripensare seriamente l’organizzazione dello Stato per migliorare le condizioni di vita dei cittadini. Infine, è giunto il momento di fare una riflessione sul decentramento amministrativo e politico nel sud.
Con l’avvento della “stagione dei sindaci” nei primi anni ‘90 e, successivamente, con il neo-regionalismo post-Titolo V, si è diffusa l’illusione che il riscatto del mezzogiorno sottosviluppato passasse dall’autogoverno. Il risultato più concreto di questa stagione, oggi, può trovarsi nella derubricazione della questione meridionale da questione di interesse nazionale a problema di rilevanza locale. C’è sicuramente una responsabilità da parte delle classi dirigenti meridionali, che si sono rivelate più provinciali e meno autorevoli rispetto a chi, ad esempio, ha scritto la Costituzione e ha realizzato la cassa per il mezzogiorno e la riforma agraria (tra questi, è doveroso ricordare i lucani Colombo e Scardaccione).
Ci sono stati, però, anche dei limiti strutturali dovuti all’architettura delle autonomie. Pensiamo ad esempio al tema dei fondi strutturali europei. La Basilicata, che pure è considerata un esempio virtuoso per la capacità di spesa dei fondi erogati dall’Unione europea per le politiche di convergenza e coesione, non ha conseguito i benefici che avrebbe potuto ottenere.
La parcellizzazione dei fondi tra le diverse regioni del mezzogiorno ha portato alla realizzazione di opere di interesse meramente locale, senza una visione strategica per l’intera area geografica del sud Italia. Si tratta, con ogni evidenza, di un’occasione persa, specialmente per quanto riguarda il dramma dell’insufficienza di infrastrutture di collegamento, di cui noi lucani siamo le principali vittime. Una gestione centrale e strategica dei fondi, col senno di poi, avrebbe probabilmente portato a ricadute maggiormente positive per la nostra comunità.
Bisogna, poi, per scendere su un terreno ancora più semplice e concreto, fare i conti con il principio di realtà. La Basilicata è una regione che ha una popolazione pari a quella di un paio di quartieri di una grande metropoli. In un mondo che va sempre più veloce e in cui le concentrazioni urbane si fanno sempre più grandi, è utopistico immaginare di tenere in piedi un centro di spesa con potestà legislativa per un numero così esiguo di persone.
È inteso, quindi, che la dialettica in questione deve articolarsi quantomeno su due direttrici che riguardino l’identità storico – culturale dei territori, e l’organizzazione dei servizi.
Il tema investe l’organizzazione amministrativa dei territori che, in alcuni casi, trova un vero e proprio limine negli attuali confini regionali. A questo ultimo proposito si pensi all’accorpamento tra il Tribunale di Sala Consilina e il Tribunale di Lagonegro e la relativa ridefinizione del mandamento giudiziario oltre i confini regionali.
Sull’identità storico – culturale dei territori, c’è da tenere presente sicuramente che il vissuto delle piccole comunità locali merita d’essere valorizzato e messo a capitale, ma allo stesso tempo che spesso prescinde dalla attuale partizione regionale.
Sull’organizzazione dei servizi, poi, diciamoci con franchezza che il tema della nuova geografia regionale per quanto riguarda la Basilicata si svolge sul campo della razionalizzazione della spesa. In questo senso, a noi pare evidente che i centri di spesa debbano ridursi attraverso l’accorpamento ovvero la gestione associata dei servizi tra enti locali.
Per quanto ci riguarda, pesa l’assenza di un ruolo strategico della Basilicata nel Mezzogiorno, e il tempo perso senza innovare i processi amministrativi di razionalizzazione della spesa e dei servizi. La parcellizzazione delle risorse, dei centri di spesa e dei servizi ha determinato un sistema di pubblica amministrazione inefficiente, inadeguato e, troppo spesso, addirittura dannoso per le comunità locali.
Su questo terreno le classi politiche lucane hanno perduto molte battaglie.
Per quanto detto finora, ritentiamo che non vi sia alcuna battaglia da intraprendere a difesa della Basilicata così com’è. Sarebbe immotivata e irresponsabile. Piuttosto, la capacità della classe politica in questo processo deve misurarsi sulle sorti dei territori nella nuova (e ancora non definita) geografia delle regioni. Il paventato smembramento se dovrà esserci è bene che sia diretto da una logica politica e territoriale a vantaggio dei lucani.
Non vorremo commentare un sistema macro regionale capestro che ci vedrebbe smembrati in cui, ad esempio, la provincia di Potenza finirebbe in una eventuale macro – regione calabrese e la provincia di Matera con la Puglia.
Che fare, dunque? La questione è sul tavolo, e i lucani hanno due possibilità: la protesta o il rilancio. La prima è quasi certamente una scelta perdente. La seconda, invece, rappresenta un banco di prova interessante per una classe dirigente che fa della modernità e dell’innovazione la propria bandiera. Con tutti i limiti del caso, la stagione del regionalismo ha rinsaldato i vincoli di comunità.
La nostra regione, che pure storicamente non aveva questi confini, ha dimostrato una grande tenuta sociale in eventi drammatici come il terremoto del 1980 o le proteste di Scanzano. Più recentemente, per citare un esempio di successo, si pensi alla scelta di Matera come capitale europea della cultura per il 2019. Ogni lucano dovrebbe leggere le motivazioni della commissione giudicante. In quelle pagine c’è scritto, nero su bianco, che Matera ha vinto anche e soprattutto per la capacità delle istituzioni locali di mettersi insieme e di presentare un progetto coraggioso. Oggi dobbiamo fare quello scatto, e accettare l’idea di un cambiamento dei confini degli enti regionali italiani, provando a imporre delle condizioni. La principale di queste condizioni è quella di scongiurare il nostro smembramento. Qualunque debba essere la sorte della nostra regione, dobbiamo pretendere con forza che resti unita, anche all’interno di confini più ampli. In secondo luogo, in un’ottica di razionalizzazione, il passaggio da 20 regioni a 12 è troppo poco ambizioso. In questo senso, dovremmo pretendere che si osi di più. Si potrebbe immaginare, ad esempio, che i nuovi enti coincidano con le circoscrizioni per le elezioni europee. Nuovi enti così disegnati avrebbero numeri e risorse tali da giustificare la loro esistenza e da metterli in condizione di poter essere credibili ed autorevoli nei rapporti col governo centrale e un sistema europeo in trasformazione.
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