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“Il vento della storia”, l’ultima fatica di Franco Cassano, sta animando un dibattito fitto e interessante. Un viaggio crudele e coraggioso dentro le mappe polverose della sinistra che sta inquietando sia gli sperimentati custodi del rito, cultori di quella materia inossidabile ch’è la nostalgia, sia quanti considerano ancora agli inizi il processo alla sinistra e alla sua stagnazione intellettuale e morale.
In ogni caso, il saggio di Cassano offre pochissimi alibi e costringe ad un impegnativo e radicale esame di coscienza. E rappresenta uno schema interpretativo che apre ad argomenti e a problemi per così dire laterali. Ma non meno decisivi.
Fra questi uno ve n’è che vedo ingiustamente e pericolosamente ignorato e sottovalutato. Un tema che pure Cassano ha trattato in passato con argomentazioni rigorose e suggestive : mi riferisco alle relazioni che oggi la cultura “militante” intrattiene con una delle dimensioni che la globalizzazione tende a considerare residua e perdente : il Mezzogiorno. Mezzogiorno come topos oggi rimosso dalla coscienza nazionale, volta per volta ridotto a invettiva neoborbonica quando non a raffinata esegesi del fallimento unitario. Comunque vittima di un esorcismo politico e intellettuale contro cui occorrerebbe riattrezzare un pensiero critico provvisto di qualche ambizione sistematica.
Direte : cosa c’entra Cassano e cosa la sua analisi impietosa sulle diottrie della sinistra che si vede “innocente in un mondo cattivo”, con le angustie di un dramma sociale che storicamente ha avvertito (oggi ancor più) la frattura fra locale e globale, l’assenza di un pensiero unificante (non dico egemonico), il deperimento dello spirito pubblico come spina dorsale dell’identità etico-civile del Paese?
Certo che c’entra! Basta considerare che una delle carenze del pensiero meridionalista continua ad essere oggi la difficoltà di “pensare” il Sud nel tempo della globalizzazione e delle utopie connettive. In questo quadro la souplesse del “pensiero meridiano”, elaborato a suo tempo da Cassano, è apparsa un messaggio suggestivo ma consolatorio, troppo carico di saggezza storica e antropologica per reggere alla inaudita accelerazione del tempo. Mentre sarebbe oggi necessaria l’elaborazione di un pensiero capace di connettere locale e globale e di rompere l’involucro dei determinismi che hanno pesato non poco sull’idea del “tempo differito”, apparsa probabilmente più congeniale ad una lettura naturalistica e biologica della vita e della storia del Mezzogiorno.
Se una sorta di logos universale tende a unificare territori, ad omologare spazi civili, a mettere in rete società e individui ponendoli di fronte alla prospettiva di un destino unidimensionale, tutto ciò chiede oggi di ”entrare” in una narrazione che rappresenti dentro nuovi quadri concettuali la modernità con le sue aporie e di oltrepassare lo stanco storicismo che si è finora alimentato alle promesse di quel “vento della storia” che sembra ora cambiare verso.
Non è un caso che proprio il Mezzogiorno rappresenti in questa fase l’occasione, per una sinistra (e per l’intero pensiero politico) che sappia ripensare la sua missione, e aprirsi alla comprensione del nuovo capitalismo nelle varianti e nelle feritoie determinate dalla sua ambizione proteiforme e inclusiva. Un campo sperimentale per ridisegnare il profilo unitario del paese, oggi seriamente compromesso, a partire dal suo cuore oscuro, dalla sua natura anfibia ed anche dalla sua storia tuttora irrisolta.
Per un’operazione così complessa serve davvero un pensiero generale, critico, aggiornato, coraggioso capace di misurarsi con la dimensione globale dei problemi, che superi i limiti delle vecchie subalternità culturali ed i riflessi dell’”eterno ritorno”, per entrare nel tempo nuovo. Cassano ci offre un paradigma. Può il sud contribuirvi?
Questa è la domanda.

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