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NELLA sua storia familiare c’è un po’ di tutto, pezzi di penisola e puntate in Uruguay. E poi c’è tanta città, quella in cui da 80 anni la sua famiglia gestisce lo storico negozio di abbigliamento, che sta lì, in centro da sempre. Ma qualche chilomentro fuori da Potenza, Davide Petilli è soprattutto un fotografo conosciuto.

Semiprofessionista, non ne fa la sua attività principale, eppure è stato indicato dalla rivista inglese online Chilli Sauce tra i cento fotografi di viaggio migliori al mondo.

Classe 1979, alla fotografia è arrivato per caso. «Viaggiavo spesso, fotografavo per piacere con la macchinetta compatta. Da ragazzo ho consumato parecchia pellicola: scomoda, con tempi lunghi e costosa, ma ha sempre il suo fascino. Tanto che ancora penso di tornarci: ho fatto restaurare una Telemetro russa degli anni 50».

Davide Petilli è un fotografo urbano che racconta città, Potenza compresa. I suoi scatti appartengono anche alle più note agenzie come Alamy e Getty Images. Ha una passione per il Giappone che ha incrociato per casualità di vita e poi ha fotografato, fermando in centinaia di angolazioni paesaggi urbani e storici (a proposito, davvero merita una visita il suo sito su cui è pubblicato il portfolio: www.davidepetilli.it).

Gira per Potenza con la Ricoh annodata al polso, pronta all’uso, ché la città regala sempre storie e persone. «Cammino molto a piedi, l’osservazione è tutta un’altra cosa così».

E allora che città osserva?

«Una città da cui tante volte ho pensato di andare via, credendo non offrisse molto. Ora quando l’attraverso e fotografo, provo a metterci del mio».

Che significa essere fotografo oggi, tra smartphone e digitale?

«Adesso siamo tutti fotografi. O meglio, tutti possiamo esserlo. Fare foto tecnicamente perfette è un gioco alla portata di tutti, prima non era così semplice. Quello che cambia però, quello che non è da tutti, è la personalità degli scatti, anche quando sono realizzati con uno smartphone».

Tra i grandi, invece, quali sono gli autori che preferisce?

 «Penso alla malinconia di Ara Güler che racconta Instambul, e poi a Sebastião Salgado, per la dignità che assegna ai soggetti: la sua, una via di mezzo tra arte e fotogiornalismo. Tra i più giovani, mi piace molto Daido Moriyama, un vero esploratore urbano. I suoi scatti da Osaka sono molto forti».

Come fotografo è molto apprezzato all’estero.

«Mi è capitato di avere grandi soddisfazioni. Lo scorso settembre, con il fotografo milanese Vittore Buzzi, sono stato il tester italiano della nuova macchina Olympus».

Più fotografia di paesaggio o più cronaca nella fotografia?

«La fotografia di paesaggio richiede levataccie all’alba, camminate lunghissime in solitaria, non è la mia modalità ideale di attività. Sa, sono un pigro (sorride, ndr)».

Quanta modifica della realtà c’è nel fotogiornalismo?

«Il fotogiornalismo cattura un momento della storia per sempre. Capita che lo scatto sia oggetto di postproduzione, e non è un male. La postproduzione, del resto, fa parte da sempre del processo fotografico. Prima c’era il metodo del “brucia e scherma”, oggi c’è Photoshop».

Anche modificata la foto resta vera?

«Non c’è la modifica della realtà se un bilanciamento dei toni aiuta a rendere più chiaro il messaggio. L’importante è che la foto sia onesta. Se uno scatto è uscito male, è uscito male è basta. Una foto resta onesta quando magari la regolazione dei contrasti, oppure l’esposizione migliorano l’impatto visivo, ma non intaccano il fatto che è raccontato in quella foto».

Nella fotografia di viaggio, dove vince la promozione dei luoghi, cambiano le cose?

«C’è molta più modifica nella fotografia di viaggio e in quella commerciale. Accade anche nel ritratto, dove il fotoritocco è piuttosto diffuso. Ma in quest’ultimo caso ogni fotografo ha la propria etica, il limite oltre cui non si spinge».

Che cosa è la fotografia di strada, soprattutto in una città?

«È una modalità del racconto. Significa documentare la società, significa spiegare quello che c’è attorno attraverso lo sguardo del fotografo».

Quindi, niente oggettività nel report della realtà?

«L’obiettività nella fotografia non esiste. Nel momento in cui il fotografo decide che cosa fotografare sta facendo delle scelte, anche nello stabilire che cosa escludere dall’inquadratura e che cosa no.  È un filtro, un interprete».

s.lorusso@luedi.it

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