3 minuti per la lettura
Negli stessi giorni in cui le rivelazioni dell’ex segretario americano del Tesoro, Tim Geithner, illuminano con nuovi particolari la presunta scena del delitto, quella nella quale presero forma, nel novembre del 2011, le dimissioni dell’allora capo del Governo Silvio Berlusconi, esce in Italia un libro – “Napolitano, il capo della banda”, autore Ugo M. Tassinari – destinato ad alimentare altre polemiche sul ruolo svolto in quell’occasione dal presidente della Repubblica italiano. Un ruolo che, anche a detta del giornalista napoletano, non fu né passivo nè neutrale. Anzi. “Il comportamento e le scelte del capo dello Stato, in quel frangente – per l’autore di Napolitano, il capo della banda” (banda, beninteso, nel senso di cricca di potenti, non sodalizio criminale) – si inscrivono in una parabola umana, politica e istituzionale del tutto coerente. Napolitano è l’uomo che più di tutti, in Italia, ha rappresentato, e tuttora rappresenta, l’anello di congiunzione con i cosiddetti poteri forti; e il garante di quel nuovo ordine mondiale che egli stesso cita in più occasioni come l’orizzonte di una magnifica era di pace e libertà per i popoli”. Un ideale, quest’ultimo, che in Napolitano è il frutto singolare, per alcuni velenoso, di una peculiare storia politica e, come si vedrà, perfino familiare.
Che il Quirinale abbia svolto, e tuttora svolga, un ruolo determinante nella politica italiana è un fatto sotto gli occhi di tutti; e che in occasione delle dimissioni, per qualcuno una defenestrazione, di Berlusconi e, poi, della nomina di Monti, il capo dello Stato abbia giocato una parte decisiva, è certificato dalle cronache e negli atti amministrativi di quella stagione. E lo stesso si può dire di tutto il suo comportamento dalla caduta di Monti in poi. Quel che invece non è chiaro è se dietro atti apparentemente obbligati – e presentati, infatti, come l’effetto necessario di un dovere di supplenza (“il sacrificio di Napolitano”) nei confronti di una politica assente o colpevole -, ci fosse o meno un disegno strategico sovranazionale; e, una volta stabilito questo, quali siano invece le ragioni che avrebbero spinto il il primo presidente ex comunista ad assecondare quel disegno.
Qui può venirci in aiuto il libro di Tassinari. A sentire il quale il Napolitano di oggi è, mutatis mutandis, lo stesso Napolitano che, nel ’56, all’epoca dei fatti d’Ungheria, polemizza ferocemente con un valoroso compagno come Antonio Giolitti in difesa dell’invasione sovietica come atto dovuto nel superiore interesse della pace mondiale: “perché quel che per lui conta – afferma Tassinari – sono già allora le dinamiche delle grandi potenze sul piano geopolitico, il ruolo dei gruppi dirigenti, la prospettiva generale”. Un realismo politico, quello di Napolitano, che si potrebbe scambiare per cinismo di marca togliattiana. E che è alla base del suo senso dello Stato.
Ma ciò che è davvero interessante ai fini della comprensione della sua psicologia politica, secondo il giornalista, è che Napolitano – del quale si favoleggiava fosse il figlio naturale di un re Savoia – proviene da una famiglia liberale napoletana “la cui storia – racconta un testimone – è tutta riconducibile all’esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell’alveo di quella francese. Per molti aspetti Napolitano è accostabile a Mitterrand, anche lui massone. Si può stabilire un rapporto tra i due: la visione della République, la stessa, laica ma anche simbolica”. “Anche escludendo l’affiliazione diretta di Giorgio Napolitano alla Massoneria – commenta Tassinari – , è del tutto evidente come il tema del ‘nuovo ordine mondiale’ che invera il sogno della ‘fratellanza universale’ promossa dall’Istituzione, stia molto a cuore del Presidente della Repubblica, tanto da dedicargli una citazione in due messaggi importanti…”.
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA