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REGGIO CALABRIA – Dopo 37 anni, torna nelle aule di un tribunale la «strage di contrada Razzà» di Taurianova, in provincia di Reggio Calabria, nella quale, il 1° aprile del ’77, trovarono la morte quattro persone (due carabinieri e due componenti di un commando mafioso) in un conflitto a fuoco tra militari e uomini delle ‘ndrine dopo la scoperta di un summit della ‘ndrangheta con la presenza di uomini politici in un casolare abbandonato.
A rivolgersi alla magistratura sono i familiari di Vincenzo Caruso, di Niscemi (Caltanissetta), uno dei due carabinieri caduti, ed in particolare gli anziani genitori, il padre, Mariano, di 92 anni, e la madre, Maria Buccheri, di 85, nonché la nipote che si è intestata questa nuova battaglia, Lorena Lupo, di 33 anni, figlia della sorella Rosaria. I familiari del militare ucciso chiedono allo Stato un risarcimento postumo, attraverso il fondo di rotazione, che riconosca al loro congiunto il titolo di «vittima dei reati di tipo mafioso», dato che all’epoca non esisteva il 416 bis.
Lo chiedono a quello «stesso Stato che stranamente assente nel processo di tuo fratello – scrive, Lorena, in una lettera alla propria madre, suicidatasi nel 2005 per la delusione di non avere ricevuto giustizia – si è costituito invece parte civile per i danni subiti ad un’autovettura», quella di servizio dei carabinieri uccisi. «Un dolore ancora rovente – scrive Lorena rivolgendosi alla mamma – che per 28 lunghi anni si è impastato con la sete di giustizia fino a lievitare in una rabbia cieca. Quella stessa rabbia che in una manciata di secondi ti ha spinto a toglierti la vita». Dopo quel suicidio si disse che la strage di Taurianova aveva «mietuto una quinta vittima».
«Ho chiesto aiuto e nessuno me lo ha dato», scrisse Rosaria Caruso prima di lanciarsi dal balcone al secondo piano della sua abitazione. La famiglia Caruso (compresa la giovane vedova del carabiniere ucciso) si costituì, a spese proprie, parte civile al processo, che si concluse con la condanna definitiva di cinque degli originali venti imputati, tra cui il boss di Taurianova, Giuseppe Avignone.
Per pagare gli avvocati, i genitori del carabiniere ucciso dovettero vendere i loro terreni, unica fonte di sostentamento. A Vincenzo Caruso, medaglia d’oro al valor militare, civile e dell’Arma, fu intitolata la caserma dei carabinieri di Niscemi, inaugurata il 26 aprile del ’90, ma il busto, collocato all’ingresso, fu pagato dall’anziana madre che, dal giorno della strage, a piedi, porta ogni giorno fiori alla tomba del figlio (e dal 2005 anche a quella della figlia). La «strage di Razzà» permise di svelare gli intrecci inediti tra ‘ndrangheta e politica, che dalla Calabria si estendevano fino a Roma con l’obiettivo di controllare il grande volume degli affari illeciti legati alla costruzione della Liquichimica di Saline Ioniche (rimasta scheletro arrugginito, emblema dello sperpero) e del quinto centro siderurgico di Gioia Tauro, programmato ma mai realizzato.
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