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“LA Passione di Cristo non si può raccontare”. Il filosofo Umberto Curi, invitato a Matera per tenere una lectio magistralis sul “Vangelo secondo Matteo” di Pierpaolo Pasolini, gela la platea. Ma come? Siamo qui per celebrare il cinquantenario del film che ha cambiato la storia dei Sassi e per assumere quella pellicola come il simbolo cinematografico del nostro riscatto storico, e lui ci viene a dire che il Vangelo di Pasolini non è altro che la messa in opera di un fallimento annunciato? E che ad esserne consapevole per primo fosse proprio il regista? Ma non è proprio così. Non è tutto qui, almeno. Perché nella sua ora e mezza di lezione, e poi nel dibattito con il pubblico, il filosofo spiega ancora che, fra i tantissimi altri, quello dell’intellettuale friulano è forse l’unico film che coglie e cerca di rendere esplicito un tratto essenziale della Passione: vale a dire, appunto, l’impossibilità di darne compiutamente conto. E la ragione, afferma Curi, sta nel fatto che quell’evento non può essere ridotto alla sua dimensione storica. E’ enorme: nel senso proprio di ciò che non può essere piegato alle norme (anche) del racconto. Pasolini o non Pasolini.
Insomma: se la lezione di Umberto Curi aveva lo scopo di aprire un dibattito, non celebrativo, sul film che ha spaccato in due la storia della città e, per questa via, stimolare un confronto radicale sul senso dell’operazione pasoliniana a Matera e, ancora, sull’identità stessa dei Sassi, gli organizzatori possono dirsi soddisfatti (a Palazzo Lanfranchi, nella sala stracolma in cui si svolge la relazione del professore, ci sono don Basilio Gavazzeni, che ha organizzato l’incontro, il sindaco Salvatore Adduce, la soprintendente Marta Ragozzino, il vescovo Pasquale Giordano, il direttore della Lucana Film Commission, Paride Leporace). Curi offre infatti una lettura tutt’altro che neutrale del film di Pasolini.
E ne riconosce, proprio nell’arrendersi all’impossibilità della narrazione, il suo valore più profondo. Per il filosofo la pellicola è soprattutto il frutto di un percorso umano e artistico fattosi via via più laborioso e sofferto, come dimostra il film che ne costituisce in qualche modo la premessa, La Ricotta. E’ nella Ricotta (l’opera nella quale si racconta il tentativo, fallito, di girare un film sulla Passione) che, secondo Curi, l’autore friulano sperimenta l’impossibilità di dar vita a un’opera compiuta sugli ultimi giorni di Cristo.
D’altra parte, però, seguendo il filo del ragionamento astratto di Curi, e forzandone le conclusioni, non si può fare a meno di pensare che nel Vangelo di Pasolini – proprio per le ragioni addotte dal filosofo – i Sassi finiscano per avere un ruolo ineludibile, e che essi siano parte essenziale della storia.
E il motivo, come vedremo alla fine, è proprio nelle parole iniziali del filosofo: “Questa è una storia che non si può raccontare”, che non si può raccontare perché, tra le altre cose – spiega Curi – l’ evento di cui si parla segna una discontinuità: per i credenti e per i non credenti. Perché, da allora, leggiamo il mondo secondo le categorie del prima e del dopo. Perché si tratta di un unicum. Perché, come dice Kierkegaard, esso è “carico di inesplicabilità”. E’ ambivalente. Irriducibile a schemi univoci. E così via. Infine, perché è un mistero: uno squarcio spazio-temporale che rompe la storia proiettandola nell’eternità.
Se le cose stanno così, ragiona Curi, è chiaro che quell’evento non può essere ritagliato in una rappresentazione: che sia pittorica, musicale oppure cinematografica. E non lo può, oltretutto, perché lo stesso messaggio insito nella Passione è un messaggio ambiguo, onnicomprensivo: che eccede la nostra capacità di discernimento e sfugge a una lettura univoca o parziale.
Acutamente Curi fa notare che gli stessi Vangeli sinottici, che rappresentano il necessario punto di partenza di ogni racconto a venire, si caratterizzano per uno stile straordinariamente conciso. Che la narrazione vi procede per salti, ellissi, allusioni. E che questa afasia deriva da un senso di inadeguatezza che, già allora, rendeva consapevoli del fatto di non avere strumenti espressivi proporzionati al mistero.
E che cosa fa, invece, l’arte nei secoli successivi, in particolare a partire dal Barocco? Prova a riempire quei vuoti descrivendo quel che nei Vangeli manca, a cui si è soltanto alluso. Come nel caso della Pietà, l’episodio raffigurato mille volte, in cui la Vergine accoglie teneramente il corpo del Figlio. Del quale i Vangeli non parlano affatto. Un’operazione di supplenza narrativa, accusa Curi, portata alle estreme conseguenze non da Pasolini, ma da Mel Gibson. Il quale, nella sua Passione, indugia proprio sui dettagli omessi nel Vangelo: in un’orgia di sangue, sudore e violenza che, a detta di Curi, è del tutto fuorviante; come se il raccapriccio, di per sé, potesse rendere il senso del tragico. E come se l’eccezionalità della sofferenza di Cristo fosse riducibile a un mero dato quantitativo, al numero delle frustate e all’abbondanza del sangue. Come se già Nietzsche non avesse chiarito il carattere ambivalente del dolore in Cristo: vale a dire di una sofferenza che incorpora il riscatto, di un dolore che redime. Della sconfitta che si tramuta in vittoria.
Ma con Pasolini le cose stanno diversamente. Il regista italiano, spiega Curi, si attiene alla lettera del Vangelo. Non vi aggiunge una parola, nel tentativo disperato di restituire anche i vuoti del testo di Matteo, e di farne emergere, quasi spontaneamente il sacro. Tutto il contrario dell’eccesso di Gibson, il quale si è illuso di riscattare il suo film attraverso l’esibizione del sacrificio di Cristo. Ma sacrificio, obietta Curi, vuol dire: facere sacrum, dare corpo al sacro. E il sacro è qualcosa di indicibile, di non comprensibile. Qualcosa che, per ragioni diverse, sfuggirà ad entrambi così come a tutti coloro che si sono cimentati e si cimenteranno sul tema.
Le differenze tra i due registi, e tra i due film, sono ovviamente abissali. C’è oltretutto un diverso uso del contesto ambientale. Laddove Gibson, fa notare nel dibattito Raffaello De Ruggieri, lascia che il Nazareno muoia dando lo spalle ai Sassi (che per il regista americano sono appena un elemento scenografico), Pasolini, utilizza quegli stessi Sassi come elemento costitutivo della narrazione, spingendosi, nella scena della crocifissione, a far sì che l’ultimo sguardo di Gesù fosse verso quello straordinario insediamento umano (quasi a suggerirne l’universalità). Come se nel silenzio rotto solo dalla “Passione di Matteo” di Bach, quelle pietre potessero essere partecipi a loro volta di un mistero impossibile da svelare.
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