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ROMA – Quattordici condanne, su 24 sollecitate dalla procura, per complessivi oltre 40 anni di carcere sono state inflitte dai giudici della settima sezione penale del tribunale di Roma nel processo agli esponenti della cosca Alvaro accusati di interposizione fittizia di beni, con l’aggravante mafiosa, eludendo così la normativa in materia di misure di prevenzione, per aver messo le mani su decine di locali della capitale (soprattutto bar e ristoranti) e averne affidato la gestione a propri familiari o a soggetti di particolare fiducia. A questi sarebbero stati intestati i beni pure “in assenza di disponibilità economica, di specifica competenza professionale o di regolare documentazione fiscale”. La pena più alta (7 anni, come chiesto dal pm Francesco Minisci) è toccata a Vincenzo Alvaro, cui è stato attribuito un ruolo di primo piano in alcune delle operazioni illecite. Quattro anni e mezzo sono stati inflitti, invece, a Damiano Villari, già titolare del Cafè de Paris, famoso locale di via Veneto, e quattro anni a Grazia Palamara, moglie di Alvaro. Agli altri sono state inflitte condanne varie dai 2 anni e 6 mesi ai 3 anni. Per il principale imputato, Vincenzo Alvaro, è stata disposta l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, mentre per altri l’interdizione inflitta è di 5 anni.
Tra le attività nel settore della ristorazione, citate nel capo di imputazione e gestite da società ritenute sospette, figurano il ‘Cafè de Paris’ in via Veneto, il ‘Gran Caffè Cellini’ in piazza Capecelatro, il ‘Time out Cafè’ di via Santa Maria del Buon Consiglio, i bar ‘Clementi’ di via Gallia, ‘Cami’ di viale Giulio Cesare e ‘California’ in via Bissolati, i ristoranti ‘la piazzetta’ in via Tenuta di Casalotto, ‘Federico I’ in via della Colonna Antonina e ‘Georges’s’ di via Marche.
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