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POTENZA – «Mi hanno chiesto di fare un’offerta più alta della loro, indicandomi la cifra da indicare nella busta. Poi si sono spartiti il lavoro».
Ha lanciato accuse anche contro il cugino Antonio Lovecchio ed Emilio Caprarella, il pentito Adriano Cacalano sentito ieri pomeriggio nel processo contro il clan dei fratelli Angelo e Vincenzo Di Muro, entrambi di Melfi, 49 e 46 anni.
Per questi ultimi, in realtà, il processo si è già concluso in primo grado a gennaio dell’anno scorso con la condanna in abbreviato rispettivamente a 12 e 14 anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso più una rapina a Sanremo nel 2010. Con loro è stato condannato anche Nicola Lovisco (10 anni), ritenuto a sua volta appartenente al clan Di Muro-Delli Gatti, mentre Michele Morelli e Donato Prota dovrebbero scontare 7 anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso coi rivali del clan Cassotta da cui secondo l’accusa si sarebbero distaccati da metà del 2008 in poi per transitare con gli altri.
Stando al quadro messo assieme dagli investigatori che hanno cercato per due anni riscontri in particolare alle dichiarazioni di Alessandro D’Amato, il clan Di Muro aveva preso di mira appalti e lavori edili nella città federiciana come le opere del centro commerciale “La nave” e il progetto della nuova ala del cimitero comunale grazie a un sistema di imprese collegate gestite dai fratelli e da un loro uomo di fiducia, Emilio Caprarella. Chi si opponeva al loro predominio – secondo gli uomini del Reparto operativo dei carabinieri e della Squadra mobile di Potenza – finiva come i fratelli Marco e Bruno Cassotta.
Per l’omicidio del primo è stato già condannato come mandante Angelo Di Muro, mentre per il secondo, sempre a gennaio dell’anno scorso, sono stati assolti Donato Prota e Michele Morelli (già condannato per l’omicidio di Rocco Delli Gatti e Domenico Petrilli nel 2002 e il 2003) e i fratelli Di Muro.
Resta quindi a giudizio il solo Alessandro D’Amato, che era compare dei Cassotta ma aveva deciso di passare con i vecchi nemici nel 2007, per questo ha ammesso di aver ucciso Marco Ugo e di aver commissionato l’omicidio di Bruno per traghettare anche Morelli e Prota nella loro nuova famiglia. Quel giochino sanguinario gli sarebbe valso il soprannome di “Caronte”.
Ieri in aula si è parlato anche di rapine ed estorsioni, che sarebbero state la specialità dei Cassotta, come quella a un noto medico di Melfi che avrebbe pagato tra i 15 e i 20 milioni di lire dietro la minaccia di ritorsioni dal momento «che era una persona esposta».
Adriano Cacalano ha raccontato di essersi avvicinato a Massimo Cassotta solo a luglio del 2007 dopo l’omicidio di Marco Ugo.
Prima infatti avrebbe intrattenuto rapporti di lavoro anche con persone vicine all’altro clan operante nel melfitano. In particolare Emilio Caprarella, che in un’occasione gli avrebbe anche sconsigliato di frequentare i Cassotta. «Mi disse di stare con loro che poi mi avrebbero fatto avere dei lavori».
Ha spiegato Cacalano, che di mestiere ha sempre fatto il muratore.
Poi ha aggiunto che in un’occasione avrebbe partecipato anche lui, spinto dal cugino Antonio Lovecchio (ex consigliere comunale condannato a settembre per favoreggiamento al clan Cassotta) alla “combine” di un appalto per lo spazzamento della neve a Melfi, che ha collocato nel 2006. Appalto che alla fine sarebbe stato vinto dalla ditta del cugino di un’esponente del clan Di Muro, che ha poi subappaltato gran parte del lavoro a Caprarella, Di Muro e un altro dei loro soci, proprietari dei mezzi utilizzati.
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