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POTENZA – Il mandante dell’agguato in cui sono stati trucidati davanti ai loro figli Pinuccio e Patrizia Gianfredi è stato il fondatore della “quinta mafia” Gino Cosentino. D’accordo con i maggiorenti del clan dei basilischi come Saverio Riviezzi e Carmine Campanella.

Ne sono convinti il pm Rosa Volpe e il gip di Salerno Maria Zambrano che hanno spiccato 3 ordinanze di arresto eseguite tra martedì sera e ieri mattina.

E’ la svolta che si attendeva da quasi 4 anni nel caso del duplice omicidio di Parco Aurora, a Potenza, un mistero datato 27 aprile 1997 su cui nell’estate del 2010 si è aperto uno squarcio grazie alle confessioni di due pentiti: Alessandro D’Amato e Antonio Cossidente.

Le loro dichiarazioni sono credibili per i magistrati che agli inizi del 2011 hanno ricevuto il fascicolo da Potenza per “competenza speciale”, dato che a un certo punto le indagini erano deviate proprio sul marito del pm che se ne stava occupando dal capoluogo lucano, accusato di aver reclutato degli “uomini d’onore”, calabresi come lui, per l’operazione.

Smentita questa ipotesi come quella che chi si nascondesse dietro i killer fosse proprio il suo propalatore (un ex pentito processato e assolto anche per il depistaggio attuato), agli investigatori restava la convinzione di aver afferrato alcuni dei responsabili ma non tutti.

Infatti nel 2004 erano già finiti in carcere Antonio Cossidente e Claudio Lisanti, che oggi non può difendersi perché è morto a gennaio dell’anno scorso, ma è indicato come il secondo sicario del “gruppo di fuoco” entrato in azione.

Con lui ha raccontato di aver preso parte all’agguato il melfitano Alessandro D’Amato, di professione camionista ma di fatto braccio armato del clan Cassotta, referente dei basilischi nell’area nord della regione.

Per D’Amato, stando a quello che lui stesso ha dichiarato, quella di Parco Aurora sarebbe stata la prova del fuoco, mentre sei mesi prima Claudio Lisanti aveva già compiuto un altro agguato assieme a Carmine Campanella. Obiettivo: un “compare” che si era rifiutato di sfregiare la sua propria sorella “rea” di aver tradito il compagno dell’epoca, che altri non era che il boss Gino Cosentino.

Secondo i pm di Salerno a distanza di meno di un anno Campanella si sarebbe limitato a effettuare dei sopralluoghi, come ammesso anche da Antonio Cossidente, l’ex boss della calciopoli rossoblu che ha confessato di aver organizzato il tutto perché i vertici della nascente “famiglia basilica” avevano deciso di «mandare un segnale» al clan egemone nel capoluogo.

Dato che i loro esponenti principali all’epoca si trovavano in carcere la scelta del bersaglio sarebbe ricaduta su Gianfredi considerato l’«eminenza grigia» del gruppo, mentre la morte della moglie Patrizia Santarsiere sarebbe stata soltanto un errore, dovuto alla mira di Lisanti col fucile a canne mozze utilizzato per l’occasione.

Alla luce dei riscontri accumulati anche negli ultimi mesi in particolare dagli agenti della mobile di Potenza, il gip Zambrano ha considerato superate le contraddizioni tra quanto sostenuto da Cossidente e le dichiarazioni di Gino Cosentino, collaboratore di giustizia a sua volta dal 2007 (revocato a maggio dell’anno scorso), che si era detto vittima di un complotto del primo per far ricadere la responsabilità dell’agguato su di lui.

Idem per un’imprecisione sul calibro della pistola utilizzata da D’Amato, che Cossidente non aveva mai detto di aver visto, ma aveva spinto lo stesso il gip di Potenza a non disporre gli arresti per Lisanti, Campanella e Riviezzi, in via d’urgenza,, senza inviare le carte a Salerno.

Ieri le ordinanze sono state notificate in carcere a Riviezzi e Campanella, considerato il gangio tra il clan e l’ex vicepresidente della giunta regionale Agatino Mancusi, tuttora a processo per concorso esterno. Entrambi infatti sono già detenuti per altro. Mentre Cosentino è stato ammanettato in provincia di Savona dove si era trasferito nell’ultimo periodo.

Soddisfazione per il giudizio di attendibilità del suo assistito è stata espressa dal legale di Cossidente, Elmina Latella. Mentre da fonti vicine alla famiglia Gianfredi si è appreso che si spera soltanto nella parola “fine” su una vicenda che non smette di provocare dolore in tutti loro. 

l.amato@luedi.it

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