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MENTRE ti scrivo il sole filtra appena. Lo faccio ora, perché sei ancora piccolo e se mi scende una lacrima posso stringerti. Stanotte non dormiremo insieme. Un figlio, con la coda. Alta, a volte. In segno di fierezza. Hai le macchie. Le bianche, poche. La più bella ti scende sul naso e ti rende il muso asimmetrico. Quando sei arrivato lo scalino ci sembrava invalicabile. A volte ci penso a quando non ci sarai più. Il contatto con te, mi mancherà. Fare i rumori strani, per vedere la tua testa girare buffa. Dicono che ci somigliamo, che sei viziato. Io dico che ci guardiamo innamorati. Un giorno sei scappato. Ti ho chiamato, aspettato. Quando ti ho visto in lontananza mi sono chinata sulle ginocchia, ho aperto le braccia e ti ho osservato galoppare, verso di me. Intenso. Se avessi potuto, mi avresti raccontato la tua scoperta. Vivevamo ancora con lui. Io ti volevo e, in un pomeriggio al parco, seduti sulla panchina verde, glielo dissi. In una settimana sei arrivato. Di me e lui restava una valigia che non sapevamo più aprire. Io amavo te e lui. Lui, solo farmi male. Ti ho difeso, protetto. Nella notte in cui siamo andati via, in macchina, ti ho dato il posto di fianco a me. Stringendoti la zampa, facevo girare la ruota lenta. Lungo la strada dei boschi la luce ha iniziato a stropicciarci gli occhi. Ti sei stirato e, mentre l’alba mi faceva la doccia, hai allungato la testa verso di me. Siamo scesi e abbiamo iniziato a camminare. Senza guinzaglio. Senza vincoli, tra me e te. Passi e paesaggio in un’unica fotografia. Io, che nelle pagine dei libri ero più attenta a quante parole conoscessi. Perdendomi la loro armonia. Da quel giorno ci siamo conosciuti, scoperti. In uno spazio che hai annusato in ogni suo dettaglio. Abitudini che hai fatto tue, prima di me. E mentre preparo la valigia, ti dico dove andrò. E dove andrai. La chiudo, con te vicino. Ti bacio lì, dove ti piace tanto. Vengo a prenderti domenica e ce ne andremo al parco. Come in un racconto.
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