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LA città più infelice d’Italia. E’ un giudizio davvero duro quello che ci affibia la scuola di psicoterapia “Eric Fromm” di Prato. Basato – spiegano loro – su un campione di cittadini che hanno risposto a domande relative ad alcune variabili: infrastrutture, mobilità, lavoro.

Il giorno dopo ognuno reagisce a suo modo: il popolo della rete reagisce con ironia, creando canzoni che inneggiano alla città e alla sua capacità di regalare felicità. Altri reagiscono con rassegnazione: ce lo doveva dire una ricerca? Altri, invece, rispondono con scetticismo: ma davvero questi validi ricercatori hanno trovato la ricetta della felicità? Perchè è anche vero che la nostra città di problemi ne ha davvero tanti, ma è altrettanto vero che altro non sono che lo specchio di un Paese che lentamente ha perso punti di riferimento. E da noi – come commentano alcuni degli intervistati – c’è in più solo questa incapacità di vedere i lati positivi dello stare qui.

«Ogni città – spiega la psicologa del Tribunale dei minori, Assunta Basentini – ha un suo bagaglio da offrire. E io credo che ormai questa sia una città da cui si scappa più seguendo un immaginario modello che partendo da dati reali. Molti dei nostri ragazzi vanno via da qui  a studiare fuori, perchè da noi non c’è futuro dicono. I genitori si indebitano per tenerli lì ma – e non sono casi rari – la maggior parte di loro resta semplicemente parcheggiata in un’altra città: tutto il rispetto per chi va via per lavoro, ma quanti ne conosco che si fanno mantenere senza alcuna prospettiva? E poi magari se ne vanno all’estero per fare i lavapiatti. Ora io dico: sono più felici a lavare i piatti degli americani? Per questo penso che ci siano degli aspetti culturali costruiti sul pregiudizio e una difficoltà ad adattarsi: la realtà che stiamo vivendo è dura, ma anche perchè veniamo da un benessere esagerato. E a questi ragazzi abbiamo fatto credere che si poteva avere tutto. Così i genitori si indebitano e loro sono comunque infelici».

Sì, ma cosa dà ai potentini questa percezione così diffusa di infelicità? Sicuramente c’è anche l’idea di essere tagliati fuori dal mondo, con treni disastrosi e strade ancor peggiori. E poi c’è questa crisi, la paura per il futuro, l’assenza di prospettive di lavoro. «E tutto ciò è vero, ma non è che altrove il lavoro si trovi così facilmente. E mi sono anche stancata di sentire dire che quelli che partono sono i migliori. Sembra così che i giovani che scelgono di restare sono gli scarti e non è così, anzi. Piuttosto credo che stiamo crescendo – la famiglia ha le principali responsabilità – dei piccoli individui infelici che non hanno più punti di riferimento. Noi genitori continuiamo a crescere i nostri figli con l’idea che bisogna proteggerli da tutto e che bisogna farli vivere nel benessere. E questo li predispone alla depressione. Certo l’isolamento geografico può avere il suo peso, ma non credo che questo possa essere causa d’infelicità».

C’è una situazione generale di impoverimento, «ma più che altro è una povertà di valori. Questi nostri ragazzi spesso non hanno punti di riferimento nella famiglia, non ce li hanno nel mondo delle istituzioni. E un dato oggettivo come l’aumento dell’abuso di alcol ne è la palese dimostrazione. E quando tu sbatti in faccia ai genitori questo problema  loro rispondono difendendo il figlio e non comprendendo che quella è la spia di un disagio, dell’assenza di dialogo».

La felicità in fondo è fatta di poche cose. E può rendere felici anche “passeggiare per Poggio Tre Galli”. Ma bisogna avere in sé almeno la speranza di poter costruire un futuro, sapendo che ci si può fidare della propria comunità, a tutti i livelli. Ma forse questa speranza l’hanno persa un po’ tutti, non solo i ragazzi. E non solo a Potenza.

a.giacummo@luedi.it

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