QUANDO visitai qualche mese fa l’area archeologica di Susa, antica capitale della Persia, mi vennero in mente, a guardare i pochissimi reperti abbandonati che costellavano la grande spianata ventosa, le parole che avevo letto chi sa dove: E si dissolse nelle spire del tempo. Andando a Sibari di recente ho avuto l’identica sensazione, fra limo, fango, muschio, detriti, nel ronzare indolente delle idrovore che senza sosta cercano di succhiare acqua e acqua che si accumula nel sottosuolo, in un tramonto d’inverno in cui s’avverte il sapore salmastro del mare vicino, assediati da zanzare e moscerini, avvolti in un silenzio rispettoso che pare attenda che l’uomo finalmente si risvegli da un torpore che l’ha assalito e gli abbia fatto dimenticare tutto. Dimenticare pure che un anno fa il fiume ha inondato tutto e da allora nulla è successo. (GUARDA LE FOTO)
Parole, promesse, impegni, ma di concreto non si ha traccia. Aggirandosi fra canne, acquitrini, mota, non è facile raggiungere il punto in cui si verificò la rotta, dodici mesi fa. Ma con la esperta guida di due amici del luogo, quando il sole è ormai è al tramonto si raggiunge la riva sinistra del Crati, il largo argine golenale cosparso di rovi e veri e propri alberi, immerso fra gli agrumeti, che occupano per intera la golena al di qua del fiume, e l’area archeologica. Un argine percorribile che avrebbe dovuto fungere da barriera di contenimento contro gli aumenti di livello del fiume, tutto in terra, abbandonato all’incuria da chi sa quanto tempo, preda di animali acquatici che scavano le loro gallerie, facile ad aggredire da erosioni e smottamenti. Nel fiume che ora scorre placido e pure limpido fra barre di ghiaia e pietrisco, in un alveo rettilineo dopo le anse poco a monte, c’è di tutto: copertoni abbandonati, ramaglia, veri e propri alberi divelti a monti e portati giù dalla corrente, qualche masso di considerevole dimensione pure esso sceso giù dalle pendici pedemontane. Uno stato di disordine idraulico che non solo stride con la placidità circostante ma è sopra tutto indice, e conseguenza e causa al tempo stesso, di cattiva funzionalità idraulica. Il letto del Crati non è sempre stato questo: nel corso dei secoli il suo girovagare alla ricerca dello sbocco a mare, ha subìto frequenti mutamenti sia plano che altimetrici, testimoniati da rilievi satellitari recenti e aggiornati comparati con supporti cartografici disponibili storicamente. A causa dell’uomo, di insediamenti fatti nel bacino fluviale, di opere di presa, di adduzione, di sbarramenti, di sistemazioni idraulico forestali… .
Per gran parte, alla foce, il fiume defluisce a quote inferiori al livello del mare. Ma non è questo che ha provocato l’alluvione. L’alluvione l’hanno provocata l’infiltrazione e il sormonto delle acque di piena del Crati. L’argine, bucherellato, s’è lasciato superare in altezza e attraverso il suo corpo in terra inadeguato a opporre resistenza all’avanzare della piena. E si parla ora di messa in sicurezza. Cosa è da intendersi con questa espressione deve essere chiarito. Perché può riguardare almeno due cose: la prima è intervenire con opere urgenti per ridurre il rischio del ripetersi di un evento simile nel futuro. Opere di rafforzamento degli argini, di consolidamento dell’esistente, di miglioramento di difesa passiva. In corrispondenza di sezioni e tratti più sensibili e pericolosi. E’ stato fatto qualcosa, in tal senso? Dalle informazioni possedute e da quanto si è costatato de visu è possibile dare conto che una ruspa campeggia solitaria a sette-ottocento metri dall’area archeologica, verso la sponda sinistra del Crati, laddove presumibilmente c’è stata la rotta, e lì vicino c’è un cartello che indica che lì si lavora per ripristinare l’officialità idraulica. Sull’argine c’è terra smossa, alberi e rami tagliati, per una lunghezza di due-trecento metri. Nient’altro. E’ bene ricordare che tutto questo non si riferisce a mesi fa, ma ad oggi, ad un anno dall’alluvione. Messa in sicurezza, dicevamo, può riferirsi pure ad altro, e riguarda azioni ad ampio raggio e con respiro temporale lungo, investe politiche territoriali e ambientali attente, pianificate, coordinate, necessita di risorse, intelligenze, saperi, buone pratiche. Ma sopra tutto richiede attenzione e cura per due cose, due cose che sono i tesori della nostra terra: la storia, l’archeologia, i siti che testimoniano delle nostre radici e dei nostri caratteri identitari, la linfa del nostro presente e del nostro futuro; e il paesaggio, i fiumi, i monti, il mare… da salvaguardare, proteggere, introdurli in circuiti di crescita sostenibile, in armonia con i beni storici.
Non si ha traccia alcuna di interessi, azioni, priorità d’intervento né lungo la prima che la seconda direttrice. Eppure ci sarebbero, ci sono, strumenti e precedenti, in materia. Stiamo parlando di difesa del suolo, di mitigazione del rischio idrogeologico, di messa in sicurezza del territorio; stiamo parlando di salvaguardia del patrimonio storico e paesaggistico calabrese: esistono norme, esistono esperienze consolidate, nell’uno e nell’altro settore. Le esperienze sono quelle maturate nel campo delle conoscenze, dei saperi, del che fare, non solo in istituti universitari e in centri di ricerca del CNR, ma anche presso i numerosi professionisti, i tecnici, via via formatisi. Le esperienze consistono pure nelle attenzioni dedicate negli ultimi decenni dalle istituzioni locali, regionali in specie, alla conservazione del suolo: basterebbe recuperare, fra le tante, le iniziative del Consiglio Regionale della Calabria a metà degli anni ’70 e a metà degli anni ’80, con convegni e approfondimenti sfociati in atti pubblicati, che fornivano precisi orientamenti e puntuali indicazioni. Ma esperienze significano pure tutto il comparto legislativo nazionale in materia, che fornisce lo scrigno del che fare. Il bacino idrografico di un corso d’acqua è la porzione territoriale, dalla foce fino allo sbocco del corso d’acqua a mare o in un altro recipiente, che recapita l’acqua piovana nel fiume. Tutto quello che avviene nel bacino, tanto di fenomeni naturali che di iniziative antropiche ha una sua pecularietà: si riverbera da monte verso valle e da valle verso monte. Fenomeni franosi, scoscendimenti, stabilità di versanti, alluvioni, esondazioni, regimi del corso d’acqua, efficienza idraulica… devono essere guardati e affrontati unitariamente, ‘a scala di bacino’, come si suol dire. Ha senso quindi affrontare la rotta di un fiume esclusivamente in riferimento al punto in cui la rotta s’è verificata? Il senso vero, efficace, risiede invece nel metter mano ai Pai, piani di assetto idrogeologico, e a una azione coordinata di protezione civile.
Affrontare la questione Sibari, che in sé ha valenza assoluta ma che assume caratteri di paradigmaticità per l’intero territorio calabrese (oltre che nazionale), significa recuperare e aggiornare quello spirito. Lo spirito che ha visto affermare non solo in atti ma sopra tutto in azioni concrete il primato delle attenzioni e delle cure da assegnare, prima di ogni altra cosa, al territorio e agli uomini e agli investimenti, recenti e antichi, che insistono su di esso. In un recentissimo convegno nazionale tenutosi preso la facoltà di Ingegneria dell’Università della Calabria, che ha riguardato le politiche territoriali e ambientali, è stato licenziato, alla fine dei lavori, un documento conclusivo di sintesi che forniva qualche utile chiave di intervento. Recuperarlo e partire da lì potrebbe essere utile.