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di LORENZO ZOLFO
Il matrimonio per gli arbereshe è l’avvenimento più solenne della vita. Nel piccolo centro di Ginestra l’ultimo con il rito tradizionale arbereshe risale al 2000, quando a pronunciare il fatidico sì furono Donatina Allamprese di Ginestra e Michele Ficarazzi di Rionero in Vulture. Che sia considerato un avvenimento indimenticabile, questo è dovuto al fatto che nel dì prestabilito per le nozze la sposa abbigliata a festa secondo il costume delle antiche epirote, coperto il volto di candido velo che dalla fronte scende fino al ginocchio, attende in casa lo sposo. Le si mette allora per la prima volta sul capo una specie di ornamento di seta trapunto di oro (in arberesh Kèsa) che ricopre la sola regione occipitale e vale a distinguere le maritate dalle pulzelle. Anche allora le si fregiano le orecchie di pendenti d’oro. Le dita di anelli, il collo di aurei monili, giacchè, prima di passare al marito, la severa complicità dei costumi non consente alle donzelle di brillare per attrarre gli sguardi del forte sesso con altri vezzi oltre quelli della loro naturale beltà. Mentre alcune donne circondano con affettuose sollecitudini la sposa e l’adornano con gli abiti e i fregi nuziali, altre donne in due distinti cori con voci alterne le cantano alcuni inni nazionali, coi quali le ispirano amore costante e fido allo sposo come colui che deve essere compagno perpetuo dei suoi giorni: la esortano a tollerare in pace l’impetuosità della suocera, a vivere d’accordo con le cognate. Intanto arriva lo sposo accompagnato da due cori di uomini e di donne che cantano le sue lodi, circondato altresì da un folto stuolo di amici e di congiunti e, mentre sembra che sia giunta l’ora della felicità, avvicinandosi alla porta della sposa, ecco che gli viene chiusa in faccia. S’impegna allora un simulacro di combattimento tra i parenti dell’uno e dell’altra: si odono colpi d’arma da fuoco, finalmente lo sposo espugna la fortezza ed entra nella casa della sposa, le si avvicina, la prende per mano, la solleva dalla sedia e con lieta burbanza esclama: “è mia”!!! Si ode allora un gran battere di mani, tutti applaudono al vincitore, tutti lo festeggiano e si congratulano con lui. Si canta, si balla alla salute degli sposi. Tutti gli invitati, guidati dagli sposi, lasciano la casa e si recano in chiesa. Ma, prima di varcare la soglia della porta, la sposa con le lacrime corre dai genitori per abbracciarli e chiedere loro perdono, essi l’abbracciano e la benedicono. Composto il corteo nuziale sfilano per le vie del paese giungendo in chiesa. Due cori (scrive lo Scura) composti da numerose persone di ambo i sessi accompagnano gli sposi; e, lungo il cammino,  cantano alternando alcune poesie liriche o epitalami albanesi, rivolti per lo più allo sposo pregandolo di non malmenare la sposa ma essere benevolo con lei. Sull’altare si compie il sacro rito nuziale, dove il sacerdote scambia in mano degli sposi i loro rispettivi anelli, in pegno di fedeltà che dovranno serbarsi reciprocamente; e pone sul loro capo due cerchi a guisa di corone per indicare che essi ormai sono liberi da ogni autorità paterna perché capi della nuova famiglia. La comitiva esce dalla chiesa, accompagna gli sposi verso la casa dello sposo. La madre di lui accoglie lietamente la giovane nuora e inizia così la festa. Nei primi giorni che seguono il matrimonio nessuno può disturbare la sposa. Trascorso tale periodo è un via vai di parenti ed amiche; allora la casa degli sposi si riempie d’ogni genere di cose, per lo più doni in natura quali olio, farina, vino, legumi.

Il matrimonio per gli arbereshe è l’avvenimento più solenne della vita.

 

Nel piccolo centro di Ginestra l’ultimo con il rito tradizionale arbereshe risale al 2000, quando a pronunciare il fatidico sì furono Donatina Allamprese di Ginestra e Michele Ficarazzi di Rionero in Vulture. 

Che sia considerato un avvenimento indimenticabile, questo è dovuto al fatto che nel dì prestabilito per le nozze la sposa abbigliata a festa secondo il costume delle antiche epirote, coperto il volto di candido velo che dalla fronte scende fino al ginocchio, attende in casa lo sposo. 

Le si mette allora per la prima volta sul capo una specie di ornamento di seta trapunto di oro (in arberesh Kèsa) che ricopre la sola regione occipitale e vale a distinguere le maritate dalle pulzelle. Anche allora le si fregiano le orecchie di pendenti d’oro. Le dita di anelli, il collo di aurei monili, giacchè, prima di passare al marito, la severa complicità dei costumi non consente alle donzelle di brillare per attrarre gli sguardi del forte sesso con altri vezzi oltre quelli della loro naturale beltà. 

Mentre alcune donne circondano con affettuose sollecitudini la sposa e l’adornano con gli abiti e i fregi nuziali, altre donne in due distinti cori con voci alterne le cantano alcuni inni nazionali, coi quali le ispirano amore costante e fido allo sposo come colui che deve essere compagno perpetuo dei suoi giorni: la esortano a tollerare in pace l’impetuosità della suocera, a vivere d’accordo con le cognate. 

Intanto arriva lo sposo accompagnato da due cori di uomini e di donne che cantano le sue lodi, circondato altresì da un folto stuolo di amici e di congiunti e, mentre sembra che sia giunta l’ora della felicità, avvicinandosi alla porta della sposa, ecco che gli viene chiusa in faccia. 

S’impegna allora un simulacro di combattimento tra i parenti dell’uno e dell’altra: si odono colpi d’arma da fuoco, finalmente lo sposo espugna la fortezza ed entra nella casa della sposa, le si avvicina, la prende per mano, la solleva dalla sedia e con lieta burbanza esclama: “è mia”!!! Si ode allora un gran battere di mani, tutti applaudono al vincitore, tutti lo festeggiano e si congratulano con lui. Si canta, si balla alla salute degli sposi. 

Tutti gli invitati, guidati dagli sposi, lasciano la casa e si recano in chiesa. 

Ma, prima di varcare la soglia della porta, la sposa con le lacrime corre dai genitori per abbracciarli e chiedere loro perdono, essi l’abbracciano e la benedicono. Composto il corteo nuziale sfilano per le vie del paese giungendo in chiesa. 

Due cori (scrive lo Scura) composti da numerose persone di ambo i sessi accompagnano gli sposi; e, lungo il cammino,  cantano alternando alcune poesie liriche o epitalami albanesi, rivolti per lo più allo sposo pregandolo di non malmenare la sposa ma essere benevolo con lei. 

Sull’altare si compie il sacro rito nuziale, dove il sacerdote scambia in mano degli sposi i loro rispettivi anelli, in pegno di fedeltà che dovranno serbarsi reciprocamente; e pone sul loro capo due cerchi a guisa di corone per indicare che essi ormai sono liberi da ogni autorità paterna perché capi della nuova famiglia. 

La comitiva esce dalla chiesa, accompagna gli sposi verso la casa dello sposo. 

La madre di lui accoglie lietamente la giovane nuora e inizia così la festa. Nei primi giorni che seguono il matrimonio nessuno può disturbare la sposa. 

Trascorso tale periodo è un via vai di parenti ed amiche; allora la casa degli sposi si riempie d’ogni genere di cose, per lo più doni in natura quali olio, farina, vino, legumi.

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