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C’È una frase che Marcello Pittella di tanto in tanto butta lì, all’improvviso, nei suoi ragionamenti e nelle sue esternazioni, come un candelotto lacrimogeno: «Io sono uomo di partito». Non importa che l’affermazione sia seguita, spesso, da una congiunzione avversativa, un “ma”, un “tuttavia”. In essa è nascosto uno dei grandi temi che aleggia da diverso tempo sulla politica italiana e non solo, quello della funzione dei partiti all’interno della società e dentro una moderna democrazia; intrecciato con questo, il ruolo e la funzione dei leader.
L’argomento torna spesso d’attualità e incrocia l’interesse di editorialisti e politologi. È da sprovveduti, però, pensare che si tratti di uno spazio di discussione da lasciare al grigiore autoreferenziale dell’accademia.
Si rischia di trascurare, colpevolmente, una chiave di lettura dei fatti politici che stanno accadendo a livello nazionale ed anche in Basilicata, a cominciare dalle primarie per la scelta del candidato governatore, fino alla fresca vicenda della nomina della nuova giunta regionale.
Senza voler esprimere giudizi di alcun tipo sul “coup de théatre” che ha portato alla nomina dei quattro assessori, il racconto del percorso attraverso il quale si sarebbe arrivati alla scelta è significativo: da una parte un partito e una nomenclatura dipinti come litigiosi, inconcludenti, rapaci; dall’altra il Governatore che, quasi obtorto collo, si vede costretto ad utilizzare fino in fondo le sue prerogative, azzerando ingerenze descritte come irricevibili. Risulta difficile, però, immaginare che cotanti assessori siano stati reclutati ad horas, quasi come un “second best”, dopo il fallimento di differenti tentativi.
È molto più verosimile che si tratti di una tela tessuta da settimane e calata sopra una finta discussione, dove il punto del compromesso è sempre troppo alto per essere raggiunto, come già avvenuto nella fase che ha preceduto le primarie regionali, quando l’unico accadimento possibile per una desistenza era individuato nella candidatura di Roberto Speranza.
Già in quella competizione, molto del leitmotiv comunicativo era stato costruito sulla contrapposizione fra leader e partito. In un campo un candidato, Piero Lacorazza, percepito, probabilmente suo malgrado, come garante dello status quo e del primato dell’organizzazione, dei suoi riti, dei suoi meccanismi talvolta miasmatici che, dopo la sconfitta, per rifarsi una verginità, è costretto a passare attraverso il lavacro della candidatura sulle preferenze. In un altro, Marcello Pittella, accreditatosi come alfiere dell’abbattimento del sistema, come ricusatore di un partito rappresentato come tentacolare, pervasivo, oligarchico, che, uscito vittorioso dal confronto e galvanizzato dall’investitura popolare, si dimostra insofferente ad accettare briglie e condizionamenti. Ed a ben vedere, anche quella che si è consumata lo scorso 8 dicembre non è stata solo la sfida fra aspiranti alla segreteria nazionale del Partito Democratico.
È stato più dello scontro fra apparati variamente ed opportunisticamente schierati. È stato soprattutto il confronto fra due modi diametralmente opposti di concepire il partito politico.
Da una parte l’idea di un soggetto con una spiccata attitudine organizzativa, possibilmente con un’ideologia mobilitante e permeato degli ultimi strascichi del centralismo democratico. Un partito apparato molto simile ad una micro comunità, esprimente una sua subcultura, detentore del monopolio della definizione delle candidature e spesso regista di nomine e gestioni di funzioni pubbliche. In tale quadro la figura del leader se non è un orpello poco ci manca.
Dall’altra, nei fatti, un organismo leggero, in cui il leader è l’unico collante fra i gruppi dirigenti. Un partito “cartello” che alterna fasi di lungo torpore e momenti di iperattivismo in vista delle elezioni e che cerca di sopperire al declino identitario con l’adozione di programmi più sfumati, generici, in grado, proprio in virtù della loro vaghezza semantica, di oltrepassare i confini di una identità troppo marcata e quindi inadatta a sfondare trasversalmente nell’elettorato.
A giudicare dai risultati che emergono ad ogni scala geografica fra i due modelli sembra non esserci partita. Parafrasando il titolo di un famoso film, si può dire che il partito politico tradizionalmente inteso è una “cosa morta che cammina”.
È da tempo che non riesce più a svolgere il ruolo cruciale di mediazione fra società ed istituzioni. È sotto gli occhi di tutti il fatto che ormai, in molti comuni della nostra regione le sezioni sono quasi del tutto scomparse e dove continuano a permanere, talvolta solo sulla carta, non rappresentano più luoghi di approfondimento collettivo e di elaborazione culturale. La disgregazione di questa organizzazione sta avendo come conseguenza l’alienazione politica dei ceti produttivi e di fasce marginali di popolazione, che sempre di più manifestano la propria frustrazione in forme talvolta poco convenzionali.
Oggi, anche la scelta, in apparenza insignificante, della costituzione o meno del gruppo unico del Partito Democratico in Consiglio Regionale, può essere emblematica di una diversa valutazione del suo ruolo e della sua importanza. Dietro l’ipotesi di gruppi separati potrebbe nascondersi la tentazione di dare stabile rappresentanza a quel civismo che, deluso dai partiti, viene chiamato al protagonismo all’interno di un contenitore diverso dal PD e che di quest’ultimo diventa antagonista nella conquista del consenso elettorale. Un civismo, magari, da pasturare con cura per poi brandire come una clava alla bisogna.
È uno schema che può riuscire e forse, nel breve periodo, può fare la fortuna di qualche dirigente. È fin troppo evidente come gli interessi più dinamici del territorio siano indotti ad avviare ricerche di vie inedite per la contrattazione politica e la tutela di istanze particolari.
Tuttavia, non è certamente questa la risposta alla crisi della democrazia, all’incapacità dei partiti di recuperare il radicamento, alla difficoltà di avere un ruolo nella composizione dei grandi conflitti sociali. I partiti ed i loro dirigenti, se vogliono incidere, in questo tempo, devono farsi carico di definire autonome culture politiche, devono tornare a lavorare sull’identità. Molto spazio può costruirsi sul tema del lavoro e della dignità della persona, specie in Basilicata.
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