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POTENZA – «Il procedimento non è ancora concluso». Lo ripete come un mantra l’amministratore unico della Teknosolar Italia 2, a chi gli chiede del parere negativo della Sovrintendenza al progetto della “sua” centrale.
Giovanni Fragasso è un 66enne di Matera con una lunga esperienza manageriale alle spalle in giro per l’Italia, da Montedison a Enel, passando per alcune delle partecipate come Standa, Fondiaria, e Acqua srl (ceduta 8 anni orsono alla multinazionale francese di cui fa parte anche Veolia).
Attualmente risulta ancora direttore della Milano Assicurazioni, del gruppo Unipol, e amministratore della Naturagri, un’azienda di San Giorgio Lucano di proprietà dell’«amico» Esteban Morras Andres, imprenditore e top manager delle più importanti società elettriche spagnole, che controlla anche il 100% di Teknosolar.
Qualcuno lo conosce come il marito del procuratore capo di Matera, Celestina Gravina, ma sono in pochi perché sul punto è molto riservato e non accetta domande.
«Quelle sulle persone con cui vivo, chi frequento e le mie scelte religiose sono domande semplicemente irricevibili». Spiega.
Salvo evidenziare che «la competenza del procuratore si ferma alla provincia di Matera mentre il progetto della Teknosolar è in provincia di Potenza». A scanso di altre questioni e pensieri su eventuali conflitti d’interesse.
«Se ho deciso di presentare questo progetto a Banzi è per vocazione etica». Tuona Fragasso dopo settimane di polemiche e accuse incassate in silenzio da parte degli oppositori del progetto.
«Me ne potevo stare beato a gestire l’azienda di Esteban a San Giorgio, 13 ettari di terreno su cui diamo lavoro a 13 persone, tutte assunte con un regolare contratto di lavoro, e messe in condizione di operare in totale sicurezza, sia per loro che per il prodotto finale. Questo è quello che intendo per impresa etica. Ma se sono tornato a Matera è per saldare un debito affettivo con la Basilicata, e provare a portare agricoltura d’avanguardia, ad alto valore aggiunto, dove si va ancora avanti con metodi obsoleti. Non solo la centrale. Questo i sindaci dell’area lo sanno bene. Anche Coldiretti, a cui peraltro siamo iscritti come Naturagri, lo sapeva. Con il coordinatore di Palazzo San Gervasio, che adesso è tra i più accesi sostenitori del fronte del “no”, c’eravamo confrontati un anno e mezzo fa sul progetto. Avevamo ragionato sulla possibilità di uno sviluppo serricolo dell’area attorno sul modello della nostra azienda di San Giorgio, con l’aggiunta il vapore prodotto dall’impianto che si può convogliare a piacimento. Come la Coldiretti sostiene anche a livello nazionale».
Fragasso non ci sta a passare chi impone dall’alto una decisione.
«Non è vero che non sono andato con il cappello in mano a chiedere il permesso ai sindaci prima di avanzare la richiesta d’autorizzazione in Regione. Il sindaco di Palazzo in un paio di incontri si era mostrato molto interessato al piano di sviluppo locale previsto come compensazione ambientale dell’impianto, allargato anche al suo comune e ad altri dell’area benché non siano interessati direttamente dal progetto che rientra per intero nel territorio di Banzi. Poi da lui non c’era più arrivata parola, mentre il suo collega di Banzi e alcuni consiglieri comunali ci hanno tempestato di domande e richieste di chiarimenti. All’inizio avevamo interpretato la cosa in maniera positiva. Ma ci siamo sbagliati di grosso, a meno che nel frattempo non sia successo qualcosa».
Di più non dice, però annuncia che nei prossimi giorni cambierà registro.
«Voglio incontrare le associazioni rappresentative di operatori economici per spiegare le mie ragioni. In queste settimane se ne sono sentite di tutti i tipi. Hanno iniziato col dire che l’impianto avrebbe provocato un surriscaldamento di due gradi di temperatura nell’atmosfera dell’area quando tendenzialmente l’effetto è il contrario. Poi si sono messi ad agitare il fantasma di un incidente che avrebbe costretto ad evacuare paesi interi, di tumori, e quant’altro. Ci accusano di voler cementificare 226 ettari di terreno, che sono poco meno di quelli occupati dalla Fiat per creare molta più occupazione. Ma in realtà si tratta soltanto di 3 ettari, quelli coperti dalla struttura del “power center”, mentre sotto gli specchi l’impermeabilizzazione sarà minima e tra uno specchio e un altro pascoleranno le pecore. Quindi se l’impianto verrà smantellato il terreno sarà molto più fertile di quanto lo sia adesso. E’ vero che a regime serviranno 226mila metri cubi d’acqua all’anno ma è anche vero che per condurre sulla stessa superficie delle colture irrigue come quelle previste dal progetto che sta ultimando l’Ente irrigazione ne servirebbero fino a tre volte tanti. Se potessimo prelevare acqua della falda come si fa oggi, senza aspettare la fine dei lavori dell’Ente irrigazione per noi sarebbe lo stesso. Per quanto sia enormemente contaminata da sostanze che con ogni probabilità derivano dai reflui di allevamenti nella zona. Processandola nell’impianto ad alta temperatura la restituiremmo depurata per l’uso che si riterrà di farne».
Poi c’è la questione occupazione.
«Per realizzare la centrale lavoreranno per due anni mille persone, tutte italiane, la metà dei quali lucani. Abbiamo già sondato il mercato per cercare le imprese che possono fornirci quanto occorre. Il nostro approccio è stato quello di optare sempre per ditte locali in condizioni di quasi equivalenza del rapporto qualità/prezzo tra le offerte e siamo arrivati a questa previsione. Dopodiché fin quando l’impianto resterà in funzione in 15 saranno impiegati nella manutenzione e in 35 nella gestione delle operazioni, per un totale di 50 lavoratori a tempo sostanzialmente indeterminato. Perché un impianto come quello che vogliamo realizzare non è a scatola chiusa ma evolve e si aggiorna in continuazione nella componentistica e nella gestione dei processi. In America ci sono impianti di 30 anni fa che hanno cambiato pelle e continuano a produrre elettricità a prezzi concorrenziali».
Infine c’è il tema della localizzazione sollevato dalla Ola e ripreso anche dai parlamentari di Sel. Perché Banzi e non un’area industriale dismessa magari ancora da bonificare. Con i ricchi introiti previsti non dovrebbe essere un problema accollarsi il ripristino di una zona tra le tante dove la chiusura di un’azienda ha significato l’apertura di un’emergenza ambientale.
«Ho cercato in lungo e in largo per tutta la Basilicata ma altri posti idonei a un progetto del genere non ce ne sono». Conclude Fragasso. «Per realizzare un impianto di questo tipo servono geometrie particolari, la possibilità di collegarsi alle linee ad alta tensione e acqua in abbondanza. In Sicilia c’è un altro posto dove potrebbe realizzarsi una centrale così, ma a me interessa la Basilicata: provare a creare il volano per un distretto tecnologico delle rinnovabili lucano».
l.amato@luedi.it
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