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SONO un giovane lucano che è andato via non per necessità, ma perché ha avuto ed ha la possibilità di approfondire i propri interessi accademici in atenei in cui esiste un gruppo di persone che si occupano delle stesse cose.La ricerca scientifica ha bisogno di comunità e, non esistendo una facoltà giuridica nell’ateneo lucano, non mi sono mai posto il problema se restare o meno. Sono partito a diciotto anni e, fin quando vorrò fare ricerca universitaria, non tornerò a Potenza.
Certamente la mia posizione è diversa da quella di molti altri. Sono convinto che alcuni miei coetanei sarebbero disposti a tornare in Basilicata se ve ne fossero le condizioni, ma sono anche convinto che la narrazione sui destini della mia generazione sia stata, fino a questo momento, scritta e recitata dai nostri padri in un impeto di auto-indulgenza.
La verità è che il mondo è cambiato, è diventato più ‘piatto’ (per usare l’espressione resa celebre da Thomas Friedman). Ed è cambiato anche il paese, nonostante tutto. Se usciamo dalla retorica del “povero figlio che vive lontano e non può mangiare la domenica con la famiglia”, ci rendiamo conto che lasciare la propria città di origine, se non altro per fare nuove esperienze, non ha nulla di eroico, né di straordinario. È un fatto che la mia generazione dà per scontato. Non si pensi che i giovani cresciuti in città che, potenzialmente, offrono tutto non avvertano il bisogno di vivere in posti diversi, imparare nuovi mestieri e nuove lingue, conoscere altre culture. In un mercato del lavoro che si fa sempre più competitivo, poi, molti di noi sono disposti ad andare a lavorare anche nelle periferie del mondo, pur di svolgere un lavoro all’altezza delle proprie ambizioni.
Il problema, a mio modesto avviso, non è nei giovani che partono. E non vedo come un problema nemmeno che i giovani lucani decidano di stabilirsi altrove. Lo hanno fatto in passato e ci sono lucani che, tra mille difficoltà, hanno mandato l’uomo sulla luna, che hanno costruito colossi imprenditoriali in altri continenti, e non avrebbero potuto farlo al caldo del loro focolare in un paesino arrampicato sulle nostre rocce. Noi proviamo a farci largo nel mondo, senza troppa enfasi e senza una narrazione necessariamente epica.
Vedo, piuttosto, altri problemi.
Il primo e più drammatico è che il numero dei giovani non lucani che decidono di venire a studiare o a lavorare in Basilicata è irrilevante da un punto di vista statistico. Questo porta ad una stagnazione culturale di una regione stretta fra i propri confini, in cui non c’è scambio fra culture ed esperienze diverse.
In secondo luogo, dobbiamo dirci con franchezza che la politica regionale sulla formazione è stata finora fallimentare. L’unico successo tangibile, a mio avviso, è stato il finanziamento per la formazione post laurea dei nostri giovani. Per il resto, mentre altre regioni hanno investito sull’internazionalizzazione delle scuole, su un sistema di diritto allo studio efficiente, su posti riservati ai loro concittadini per l’accesso a master prestigiosi (penso all’accordo tra la regione Veneto e il College d’Europe di Bruges, centro d’eccellenza per la formazione dei futuri funzionari europei), noi abbiamo dilapidato un patrimonio di risorse pubbliche a tutto vantaggio di corsi di formazione organizzati quasi esclusivamente per ingrassare le tasche dei formatori. Eppure, per i piccoli numeri della nostra regione, potremmo investire in politiche attive per l’apprendimento delle lingue o per risalire posizioni in classifica nei test PISA sulle competenze matematiche. Nel lungo periodo, investimenti sbagliati in formazione portano alla ghettizzazione culturale di chi non ha la possibilità di poter scegliere se partire o restare. In un contesto in cui il pubblico ha poche risorse, investimenti mirati in formazione rappresentano potenzialmente il più potente grimaldello di giustizia sociale.
Ultimo problema, e forse quello cui può ovviarsi in tempi relativamente più stretti, è il rapporto tra istituzioni e imprese lucane e giovani che vivono fuori sede. C’è almeno un’altra Basilicata al di fuori dei confini geografici della nostra regione, con un capitale di competenze e di contatti che potrebbero far comodo. Ad oggi, una priorità dovrebbe essere quella di censire chi siano i giovani lucani che vivono altrove e quali competenze questi abbiano. Scopriremo forse che invece di pagare profumatamente consulenti o profeti stranieri che organizzano eventi e ‘summer school’ senza ricadute reali per la comunità, potremmo rivolgerci a giovani competenti che avrebbero voglia di fare qualcosa per la propria terra a costi più bassi e, verosimilmente, con risultati migliori.
Per farla breve, non riesco a vedere come un problema il fatto che la mia generazione voglia andare via, scoprire il mondo, cercare la propria felicità altrove. Vedo il pericolo di una scarsa attenzione al futuro di chi resta e uno scarso dinamismo nell’attrazione di giovani da altri luoghi del mondo. Vedo, soprattutto, un’ingiustificata distrazione nei confronti di giovani di talento (e ognuno di noi ne conosce molti) che potrebbero e vorrebbero rendersi utili per la nostra regione anche senza far necessariamente ritorno.
Non credo di esagerare nel dire che questi tre problemi siano nodi cruciali per il futuro della Basilicata. Dalla soluzione di questi problemi passa la creazione di un contesto virtuoso, nel quale chi è andato via può anche, eventualmente, decidere di fare ritorno a casa. Altrimenti, Itaca può aspettare.
*PhD Candidate in Diritto del commercio internazionale presso lo European University Institute di Firenze
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