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PIÙ lontano e più in alto sei, più – con il cielo terso e l’aria gelida – a colpirti è quel fumo, che ti sembra denso e compatto quasi lo potessi toccare, che fuoriesce da uno degli altiforni della Sider. Man mano che ti avvicini, però, quel fumo – “caspita come inquina quell’impianto”, questa la costatazione che almeno una volta è passata per la mente di ciascuno di noi – si dirada e perde la sua consistenza. Lo stesso fumo lo si vede, percorrendo la Jonica, man mano che ti avvicini a Taranto. Costeggiando l’Ilva, però, noti che l’asfalto e i guardrail sono rossi per le polveri d’acciaio che si sono depositate giorno dopo giorno. Non è così lungo viale del Basento dove l’asfalto ha ancora il colore, seppur sbiadito dall’usura, dell’asfalto.
Poi imbocchi la strada che porta all’ingresso di quello che è l’impianto industriale più grande della città. Sui due lati filari di alberi spogli. Ma è dovuto al fatto che è inverno. Intorno all’Ilva, invece, non cresce più niente. E allora ti domandi: ma come è possibile che i dati dell’Arpa Basilicata e dell’Arpa Puglia dicono che i livelli di diossine presenti nell’aria del capoluogo di regione sono quattro volte superiori a quelli che si respirano a rione Tamburri, la zona di Taranto dove sorge l’Ilva?
Cosa sta succedendo là dentro? Il “là dentro” altro non sarebbe che quel vasto spazio – circa 80.000 metri quadrati – che si trova al di là di quelle cancellate azzurre che vengono aperte per consentire l’ingresso di quei grossi camion colmi di rottami ferrosi destinati all’altoforno.
Siamo davanti la Sider Potenza: stabilimento prima di proprietà della Lucchini e che dal giugno del 2002 è stato acquisito dalla Pittini.
Oltre il cancello non si può andare.
Circa 300 gli operai impiegati all’interno che arrivano a 700 se si considerano anche coloro che sono occupati nell’indotto e nei settori delle sub forniture. È difficile strappare un commento rispetto a quei dati allarmanti, anche se poi qualcuno – «basta che mi garantisce l’anonimato» – disposto a parlare lo trovi.
E rimani spiazzato da quello che ti dicono. «Siamo certi che non rischiamo la vita» che equivale a una difesa di quella che definiscono la loro azienda.
«Quando c’era Lucchini – ammettono i più anziani – le cose erano diverse». Quindi l’impianto inquinava? Viene spontaneo chiedere. «Noi siamo dei semplici operai – rispondono – non degli esperti ma di sicuro non esistevano certi accorgimenti che esistono oggi». Accorgimenti non solo «ambientali – aggiungono – ma anche e soprattutto di protezione della nostra incolumità fisica».
Che lavorino nell’altoforno, piuttosto che allo scarico del materiale ferroso, quei pochi che si sono lasciati andare sono tutti concordi nel difendere la loro azienda e nel rimarcare che «nello stabilimento oggi non si verificano più incidenti». Incidenti che, invece, quando la proprietà era di Lucchini «capitavano». E la frase rimane come in sospeso quasi dovesse seguire un “e guai a parlarne”. Insomma, oggi come oggi, «non temiamo per la nostra salute. Ci sentiamo al sicuro». E le diossine e i veleni?. Alzata di spalle accompagnata da uno sguardo di incredulità.
Questa è l’altra faccia della medaglia. Da una parte ci sono i cittadini, soprattutto quelli che vivono a Bucaletto, preoccupati per la loro salute e dall’altra ci sono loro, gli operai della Sider, che si sentono «al sicuro».
a.giammaria@luedi.it
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