4 minuti per la lettura
POTENZA – Condannato per mafia a causa di un «teorema costruito a tavolino» dall’ex procuratore di Melfi Adriano Cono Lancuba, condannato a sua volta per rapporti con la camorra e morto prima di arrivare in Appello. Un «errore di giudizio» da cui più d’uno dei colleghi del magistrato non ha voluto prendere le distanze.
Si è presentato così ieri mattina in videoconferenza dal supercarcere di Cuneo Renato Martorano durante l’ultima udienza del processo Iena2.
Martorano, che sta scontando a regime di 41bis una condanna a 14 anni per usura ed estorsione aggravate dal metodo mafioso, ha chiesto di rendere delle spontanee dichiarazioni dopo che il pm Francesco Basentini ha indicato gli ultimi testimoni dell’accusa nei suoi confronti.
Il prossimo 10 febbraio dovranno comparire in aula l’ex deputato di Forza Italia Gianfranco Blasi e l’ex consigliere regionale di Patto Segni-Liberaldemocratici Agostino Pennacchia, nonché cognato dell’allora direttore generale del Crob Teodosio Vertone.
A novembre del 2004 entrambi erano stati destinatari dell’ordinanza di misure cautelari firmata dal gip Alberto Iannuzzi, che aveva accolto le richieste avanzate dai pm Henry John Woodcock e Vincenzo Montemurro. In seguito l’ordinanza sarebbe stata annullata dal Riesame, e le loro posizioni sono finite in archivio. Ma Vertone risulta ancora tra gli imputati per aver agevolato una ditta di pulizie in servizio al Crob in cambio di alcune assunzioni, più «una squadra per pulire e mettere in ordine la sua casa in campagna», e un non meglio precisato «pacco-regalo».
Sarà quindi proprio sui rapporti col cognato e col titolare della ditta in questione che verterà l’interrogatorio di Pennacchia, poi a lungo direttore sanitario dell’azienda ospedaliera San Carlo di Potenza.
Blasi invece, segretario regionale di Grande Sud, sarà chiamato a rispondere sui suoi rapporti con Renato Martorano in persona, che secondo gli inquirenti in cambio di sostegno elettorale avrebbe cercato di sfruttarlo per aiutare alcune imprese “controllate” ad accaparrarsi appalti e commesse pregiate in Basilicata.
Ieri mattina Martorano ha sorvolato su tutto questo leggendo una memoria incentrata sull’accusa principale nei suoi confronti – che è poi l’unica su cui non incombe ancora la prescrizione – ovvero quella di associazione mafiosa.
«Aver commesso dei reati non vuol dire appartenere a un clan». Ha dichiarato da Cuneo prendendosela col Ros dei carabinieri, che gli avrebbe fatto «terra bruciata» intorno; quindi la stampa, che sul suo conto avrebbe riportato «cose mai riscontrate ma utili solo per attirare i lettori incuriositi a vendere qualche copia in più»; e i collaboratori di giustizia che hanno puntato il dito contro di lui.
«Per non parlare – ha poi aggiunto attaccando il sacerdote vicepresidente di Libera privato dell’appellativo di “don” – dell’accusa fattami nel processo Penelope poi riportata su tutti i quotidiani e le riviste legate ad associazioni di Marcello Cozzi dove il collaboratore Notargiacomo asserì che fui io a reperire l’acido per l’uccisione del piccolo Di Matteo. Per fortuna che nuovi più affidabili collaboratori del calibro di Gaspare Spatuzza, Brusca resero dichiarazioni con dati di fatto e non teorie per accaparrarsi la compiacenza di alcune procure e continuare usufruire del programma di protezione con falsità».
Di qui la richiesta di sentirne alcuni per dimostrare la sua innocenza. Come Giuseppina Pesce, figlia del boss Salvatore di Rosarno con cui avrebbe avuto un’antica frequentazione; “don” Saro Mammoliti di Castellace, il padrino che l’avrebbe battezzato; e Gino Cosentino, fondatore della quinta mafia, che lo avrebbe collocato ai margini delle ‘ndrine operanti nel capoluogo di regione.
«Vi chiedo che vengano tenuti in considerazione i fatti e di non continuare a tenere un pregiudizio nei miei confronti che offuschi la verità». Ha concluso Martorano.
Di rimando il pm Francesco Basentini ha annunciato che per la prossima udienza depositerà i verbali di altri due collaboratori di giustizia a sostegno dell’accusa, con riserva di sentire anche loro come testimoni in extremis: il sicario del clan Cassotta di Melfi Alessandro D’Amato e il padrino della calciopoli rossoblu e del processo su mafia e politica in Basilicata Antonio Cossidente.
l.amato@luedi.it
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA