Sei mesi di lavoro in azienda e oggi la certezza: quel progetto non serve a niente
Work experience? No, grazie
Il racconto di una borsista. «Questionari del tutor didattico, spesso li compilavo io»
LA chiameremo Luisa per evitare che la sua denuncia sull’inutilità del progetto di work experience per favorire l’inserimento nelle imprese lucane, le si ritorca contro.
Ecco il vero paradosso: tentare di crearsi un’opportunità lavorativa, scontrarsi con gli inutili e farraginosi legacci burocratici e scoprire che in pochi casi ciò che è scritto corrisponde a quello che avviene.
La sua esperienza risale ad alcuni anni fa, quando decide di partecipare al bando del Dipartimento Formazione e Lavoro della Regione, nell’ambito del Programma Operativo Fse Basilicata 2007-2013. Il progetto prevede che si assicuri: «Ai destinatari l’opportunità di partecipare a percorsi formativi, di cui una parte rilevante dovrà essere costituita da una formazione on the job, grazie ad un contatto diretto con la realtà lavorativa, attraverso cui incrementare le proprie competenze e prendere parte ad un processo individualizzato di socializzazione lavorativa con le realtà produttive, in modo tale da creare le condizioni per un successivo inserimento occupazionale».
Luisa quella formazione la svolge a 6 euro all’ora per un totale di 720 ore regolarmente retribuite, ma sotto il profilo del monitoraggio da parte del tutor didattico esterno, c’è qualcosa che non funziona.
«Nell’ambito del progetto, il borsista e l’azienda presso cui svolge la work experience, dovevano essere affiancati da due tutor – spiega Luisa – Il primo era una figura aziendale, ossia una persona interna o esterna all’impresa che conoscesse le caratteristiche dell’incarico affidato al borsista e lo aiutasse. C’era poi il tutor didattico che doveva monitorare l’azienda in un arco di tempo di 35 ore. Il rappresentante dell’ente erogatore, cioè, doveva recarsi presso l’azienda e verificare quali fossero i compiti del borsista e e se venivano rispettati altri parametri, se il tutor aziendale l’aiutava. In tutto, credo di averlo visto al massimo quattro volte in sei mesi. Il monitoraggio prevedeva anche questionari periodici da compilare nel quale valutare, attraverso una votazione, l’impresa, i propri compiti. Questo materiale doveva essere compilato in media ogni 20 giorni per valutare i progressi. A questo – aggiunge Luisa – venivano affiancati altri questionari». Per completare questi test, Luisa si recava nella sede dell’ente erogatore (e non il contrario come, invece, l’attività di monitoraggio prevede abitualmente, ndr.) e ne compilava più d’uno per poter completare l’elenco di tutto il materiale anche precedente o successivo alle date previste. E’ sempre Luisa, poi, a compilare i questionari che l’ente avrebbe dovuto stilare per descrivere il proprio lavoro, la propria figura professionale.
«Mi vedevano come una persona precisa – racconta ancora incredula – e così si fidavano di quello che scrivevo».
Luisa racconta e nel frattempo conferma: «Work experience? Mai più».
Antonella Ciervo
matera@luedi.it
LA chiameremo Luisa per evitare che la sua denuncia sull’inutilità del progetto di work experience per favorire l’inserimento nelle imprese lucane, le si ritorca contro. Ecco il vero paradosso: tentare di crearsi un’opportunità lavorativa, scontrarsi con gli inutili e farraginosi legacci burocratici e scoprire che in pochi casi ciò che è scritto corrisponde a quello che avviene. La sua esperienza risale ad alcuni anni fa, quando decide di partecipare al bando del Dipartimento Formazione e Lavoro della Regione, nell’ambito del Programma Operativo Fse Basilicata 2007-2013.
Il progetto prevede che si assicuri: «Ai destinatari l’opportunità di partecipare a percorsi formativi, di cui una parte rilevante dovrà essere costituita da una formazione on the job, grazie ad un contatto diretto con la realtà lavorativa, attraverso cui incrementare le proprie competenze e prendere parte ad un processo individualizzato di socializzazione lavorativa con le realtà produttive, in modo tale da creare le condizioni per un successivo inserimento occupazionale».
Luisa quella formazione la svolge a 6 euro all’ora per un totale di 720 ore regolarmente retribuite, ma sotto il profilo del monitoraggio da parte del tutor didattico esterno, c’è qualcosa che non funziona. «Nell’ambito del progetto, il borsista e l’azienda presso cui svolge la work experience, dovevano essere affiancati da due tutor – spiega Luisa – Il primo era una figura aziendale, ossia una persona interna o esterna all’impresa che conoscesse le caratteristiche dell’incarico affidato al borsista e lo aiutasse. C’era poi il tutor didattico che doveva monitorare l’azienda in un arco di tempo di 35 ore. Il rappresentante dell’ente erogatore, cioè, doveva recarsi presso l’azienda e verificare quali fossero i compiti del borsista e e se venivano rispettati altri parametri, se il tutor aziendale l’aiutava. In tutto, credo di averlo visto al massimo quattro volte in sei mesi.
Il monitoraggio prevedeva anche questionari periodici da compilare nel quale valutare, attraverso una votazione, l’impresa, i propri compiti. Questo materiale doveva essere compilato in media ogni 20 giorni per valutare i progressi. A questo – aggiunge Luisa – venivano affiancati altri questionari». Per completare questi test, Luisa si recava nella sede dell’ente erogatore (e non il contrario come, invece, l’attività di monitoraggio prevede abitualmente, ndr.) e ne compilava più d’uno per poter completare l’elenco di tutto il materiale anche precedente o successivo alle date previste. E’ sempre Luisa, poi, a compilare i questionari che l’ente avrebbe dovuto stilare per descrivere il proprio lavoro, la propria figura professionale. «Mi vedevano come una persona precisa – racconta ancora incredula – e così si fidavano di quello che scrivevo». Luisa racconta e nel frattempo conferma: «Work experience? Mai più».