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ROMA – A squarciare il velo del dubbio e delle ipotesi sulla violenza subita da Simona Riso da giovane mentre viveva in Calabria con la sua famiglia sono giunte le dichiarazioni di uno degli psichiatri che l’hanno avuta in cura a Roma. In una intervista al Messaggero, infatti, uno dei medici del reparto psichiatrico del San Camillo ha spiegato, fornendo in questo modo una conferma medica alle ipotesi, come «chi viene da noi o è stato violentato o è stato ignorato, che è un’altra forma di violenza».
Il medico racconta come Simona Riso, prima di aprirsi ai terapeuti, abbia trascorso quasi un mese in silenzio fino a quando ha iniziato a parlare con una confessione shock: «Sono stata violentata, non una volta ma spesso, quando ero più piccola, da un parente».
Simona Riso è morta la mattina del 30 ottobre all’Ospedale San Giovanni dopo esser precipitata dal terrazzo di una palazzina in via Urbisaglia, sulla sua morte sono in corso indagini per capire se si sia trattato di un omicidio o di un suicidio (anche se questa seconda ipotesi al momento sembrerebbe quella più seguita), il trauma che ha vissuto da bambina era stato finora accennato dalla stampa ma sempre prontamente negato dalla famiglia, ora, però, le parole degli psichiatri del San Camillo riportate dal Messaggero presentano una realtà meno nebulosa. «Come accade in questi casi – prosegue il medico nell’intervista – aveva paura di non essere creduta. Ma voleva liberarsi di un peso e dopo un mese di silenzio in cui ci studiò, finalmente si aprì: prima titubante, poi convinta che ce l’avrebbe fatta».
A quel punto i medici la convinsero a confidare il suo trauma alla famiglia, e in questo frangente fu organizzata la riunione con la mamma e, un fratello, lei era pronta, «pensava di non avere voce e spazio mentre ora con noi a fianco si sentiva più forte. La mamma rimase in silenzio, non fece commenti, forse parlarono in privato. Trovammo sponda solo nella sorella Nunzia, riallacciarono il rapporto, le mandammo insieme in vacanza con l’impegno che Simona rientrasse da noi al ritorno per finire il nostro lavoro. Ma volle andare a Milano con la sorella, eravamo un po’ preoccupati ma le trovammo un terapeuta che la potesse seguire».
Una sofferenza interiore che comunque non l’ha mai abbandonata e che forse potrebbe averla spinta quella mattina del 30 ottobre ad un gesto definitivo. Una ipotesi su cui spetterà ai carabinieri e alla giustizia pronunciarsi in modo chiaro e definitivo
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