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REGGIO CALABRIA – Potevano contare su avvocati, su commercialisti, su funzionari di banca. Potevano persino gestire direttamente i beni che gli erano stati confiscati. Corrompendo, minacciando o anche semplicemente ammiccando ad amici ed amici degli amici, avevano costruito un vero e proprio impero del mattone. Una struttura in grado di agire sul mercato immobiliare privato che produceva benefici per tutti. Così costruivano i palazzi che poi trasformavano in soldi vendendo appartamenti. E nelle operazioni ci entravano tutti. Sono i dettagli che vengono fuori dalle carte dell’operazione nella quale sono state coinvolte decine di professionisti oggi a Reggio Calabria: 47 le ordinanze di custodia cautelare, 64 in tutto le denunce, 14 le società sequestrate ed un consistente quantitativo di beni per un valore di oltre 90 milioni di euro. 

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C’erano le aziende legate ai clan che si occupavano degli impianti elettrici, quelle che ci mettevano gli ascensori, chi faceva il movimento terra e chi invece si era accordato per le pitturazioni. Tutto era deciso a tavolino. Ed ognuno aveva il suo “fiore”. E quello che si decideva nei summit era legge. 

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Non a caso Giuseppe Stefano Tito Liuzzo, il perno attorno al quale giravano diverse operazioni, quando c’erano problemi tuonava: “Digli che gli abbiamo dato quello che ha chiesto, che gli accordi sono accordi e che se non va bene se la deve sbrogliare lui”. Ad ogni clan un pezzo. C’era lavoro per i Lo Giudice, per i Condello, per i Ficara-Latella, per i Ficareddi, per i Rosmini-Serraino, per i Fondana-Saraceno, per i Nicolò Serraino. Liuzzo, secondo l’indagine della Guardia di Finanza, era un personaggino tutto particolare. Gli uomini del colonnello Alessandro Barbera – e in particolare quelli della Tributaria comandati da Domenico Napolitano e del Cigo di Reggio Calabria diretto da Giuseppe Abruzzese – lo hanno tenuto “sotto” per mesi, intercettato e seguito da una parte, passato allo scanner dal punto di vista patrimoniale dall’altro. Ed è così che ad esempio si è scoperto dei suoi rapporti con l’avvocato Mario Giglio (arrestato), dei consigli che gli venivano dati per nascondere i patrimoni dai suoi commercialisti e dei suoi legami con il mondo del credito sia ufficiale che illegale. Ma soprattutto l’indagine che porta la firma del Procuratore aggiunto Michele Prestipino (oggi trasferito a Roma) e del pm Giuseppe Lombardo, ha consentito di accertare che i beni che gli erano stati confiscati erano ancora gestiti da lui direttamente. 

Gli uomini del Comando provinciale della guardia di Finanza sono saltati sulla sedia quando hanno scoperto che l’amministratore giudiziario Francesca Marcello, in realtà era poco più che un fantoccio. E che la “Euroedil”, veniva amministrata invece che dallo Stato da Liuzzo ed i suoi. Ma non è tutto. Il nome di Liuzzo, la sua fitta rete di prestanome e di “consiglieri”, emerge quando i magistrati vanno a guardare tra gli affari dell’azienda edile di Santo Calabrò e del figlio. Un’impresa che stava costruendo 60 appartamenti nel quartiere Arangea sui terreni ceduti da don Rocco Musolino, ritenuto storico uomo di rispetto della ‘ndrangheta reggina. Liuzzi è socio “occulto” di Calabrò e ne gestisce direttamente più di un interesse. Nelle carte firmate dal Gip Domenico Santoro (quasi tremila pagine) viene fuori uno spaccato inquietante su due piani. Quello squisitamente criminale, con la spartizione dei lavori da parte delle cosche. E quello delle connivenze e delle complicità della Reggio che non ti aspetti.
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