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A DISTANZA di pochissime ore, l’acqua ha atrocemente unito i destini dei migranti di Lampedusa ai campi e alle bellezze di quella che un tempo fu la Magna Grecia pitagorica.
Ravvedo uno strettissimo collegamento tra i due drammatici episodi. Non solo in merito alla forza distruttiva dell’acqua e degli eventi, ma anche in relazione a due temi che caratterizzano il nostro tempo: la figura dello straniero da una parte e i processi culturali dall’altra.
Temi che possono apparire diversi e distanti e che pure sono collegati da una potente interdipendenza.
Quattro brevissime cose sulla figura dello straniero e dell’Altro: 1) Duemila anni fa, fu un uomo venuto da lontano, il protagonista di una delle pagine culminanti della nostra storia.
2) Si abbattono le barriere e si inferociscono conflitti etnici in nome di chissà quale identitaria, irreversibile vocazione. È una cultura tombale che dimentica la dimensione dinamica e socializzante dell’uomo, rapendola al divenire di cui è fatta la vita.
3) Si manifestano spiccate nostalgie di comunità dopo i “decenni dell’io” eppure la più madornale esperienza cui assistiamo è quella di persone spinte a costruire intorno a sé presidi di immunità con residenze iperprotette e videosorvegliate.
Respinto sempre più lontano, l’altro diventa un’ombra che raduna tutte le nostre paure.
4) Lo Straniero è portatore di un’ambivalenza irriducibile: è al tempo stesso un ospite e un potenziale nemico, porta a noi il dono del riconoscimento e la minaccia della sottrazione.
Detto questo, dal mio punto di vista Metaponto e Lampedusa sono accomunate da un filo di sangue e fango, che testimonia il fallimento di tutte le politiche culturali praticate nel nostro Paese.
Cosa dovrebbero fare le politiche culturali?
Non partorire capolavori, quelli arrivano dopo. Nemmeno produrre profitti. Anche quelli arrivano dopo.
Una politica culturale ha la prioritaria missione di costruire lo spazio e il tempo del pensare e del dialogare, lo spazio e il tempo per rompere le facili suggestioni del pensiero unico e per aprire all’Altro.
Altri pensieri da noi, altri approcci alla vita, altri odori.
Ecco, l’Altro è portatore di quelle differenze che sono in grado di aprire uno scarto, dei varchi, degli spazi in cui il nostro pensiero è libero di andare e la nostra intelligenza di scintillare nel pensiero delle intelligenze altrui.
Quello che accade quasi in contemporanea a Metaponto e Lampedusa è il frutto, invece, di una politica culturale che è concentrata molto sugli eventi e poco sui processi, molto su logiche produttive che vivono i cittadini come consumatori e poco su pratiche di civismo che restituirebbero all’abitare comportamenti fondativi e creativi.
È un fare cultura agonizzante se non già morto.
E, se ce ne fosse bisogno, i dati drammatici dei livelli di lettura e fruizione dei media lo sigillano in modo inequivocabile.
Si badi bene. Non voglio affermare che è necessaria una politica culturale volta all’apertura indiscriminata a tutto e tutti, ma un’apertura irrinunciabile al dialogo si.
Perché senza una dimensione collettiva Metaponto diventa il pensiero di pochi e lo straniero una maschera minacciosa che, in una fratricida guerra tra poveri, viene a toglierci cose illusoriamente nostre.
Un fare cultura che ci insegni a pensare: Non io. Noi.
Un fare cultura che ci renda consapevoli che non esistono giacimenti e monumenti da fruire, ma luoghi in cui riconoscere la bellezza del proprio appartenere alla storia di questi luoghi.
Una bellezza senza la quale si perde il senso dell’abitare i luoghi.
Il resto è spettacolo.
Un punto di vista più che condivisibile su cui tanti dovrebbero riflettere, soprattutto nelle “stanze dei bottoni”.
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