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POTENZA – «Colpevoli» di favoreggiamento a Massimo Cassotta e gli altri del clan del castello.

Lo ha stabilito il Tribunale di Potenza che ieri mattina ha condannato Antonio e Michele Lovecchio rispettivamente a 4 anni e 3 mesi e 4 anni. Poco prima il pm Francesco Basentini aveva chiesto 4 anni per entrambi, quindi la sua richiesta è stata superata anche se per poco.

Antonio Lovecchio, costruttore, vicepresidente del consiglio comunale di Melfi (fino al 2011) eletto con una lista civica di centrodestra “Melfiduemilauno” e soprannominato “turbo” dai melfitani per la velocità con cui sa realizzare i palazzi era finito al centro di un’inchiesta della Squadra mobile di Potenza che ha preso le mosse nel 2008 proprio dall’incendio del suo fuoristrada. Si sarebbe trattato infatti di una ritorsione dopo un tentativo di estorsione andato a male.

L’artefice sarebbe stato Massimo Cassotta, peraltro suo cognato dal momento che ha sposato la sorella. Ma di fronte alla sua richiesta di aiuto per i detenuti del clan, Lovecchio avrebbe resistito preferendo affrontare a muso duro il boss con tanto di pistola nella cintola dei pantaloni. Tutto raccontato per filo e per segno in alcune conversazioni con il fratello e un suo amico imprenditore, Amedeo Vernetti, all’interno della sua auto dove gli investigatori avevano piazzato una microspia che ha registrato tutto. La sua reticenza alle domande sull’incendio dell’auto non era passata inosservata per questo nel giro di qualche giorno in procura si erano convinti a metterlo sotto controllo.

Lovecchio sempre per questa vicenda sarebbe stato arrestato due volte il 29 gennaio e il 25 luglio 2009 per porto abusivo di armi da fuoco e favoreggiamento. «Prima, quando c’era Rocchino, o Petri, bastava assumere qualcuno. Ora invece vogliono i soldi». Queste le parole intercettate che hanno fatto propendere il Tribunale per la condanna.

Per l’incendio dell’auto di Lovecchio e il tentativo di estorsione ai suoi danni è stato già condannato in appello Massimo Cassotta. A proposito del clima omertoso nel Vulture-Melfese il presidente della Corte d’appello Vincenzo Autera si soffermava proprio sulle vittime che «hanno rifiutato di ammettere anche l’evidenza, risultante dalle intercettazioni o da altre fonti probatorie». E su altre che «hanno esplicitamente ammesso di temere reazioni di vendetta da parte dei componenti del sodalizio».

Il riferimento era da una parte alla «fuga dal palazzo di giustizia» di un imprenditore di Gallipoli, ma dall’altra alle  giustificazioni proprio del costruttore ed ex consigliere comunale Antonio Lovecchio che «nel tentativo di non confermare le accuse nei confronti dei prevenuti – scrive ancora il presidente della Corte – rasenta il ridicolo quando afferma che il riferimento al termine “armato” adoperato per descrivere l’episodio avvenuto in piazza (un faccia a faccia con il boss, ndr) doveva intendersi che si era recato all’incontro con gli estorsori “armato di pazienza”».

La difesa di Autera rappresentata in aula dall’avvocato Gervasio Cicoria aveva chiesto l’assoluzione di entrambi i fratelli sostenendo che le intercettazioni non dimostrano che Antonio Lovecchio e di riflesso il fratello conoscessero quanto riferito una settimana prima, in occasione dell’interrogatorio del primo davanti agli investigatori.

l.amato@luedi.it

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