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SI, è vero, per salvare la Natuzzi, e insieme centinaia di posti di lavoro, è rimasta una sola carta da giocare: quella che prevede il rientro in Italia di alcune produzioni oggi realizzate negli stabilimenti rumeni del gruppo. E’ questa, allo stato, l’unica, e forse l’ultima, disperata mossa studiata dai giocatori che si alternano da mesi al tavolo della partita: governo, impresa e sindacati. Ma a quale prezzo? E’ questo il punto. Il nodo, come è ovvio, consiste nel costo aziendale dell’operazione. Ma non è vero “che il gruppo abbia sostenuto che, per il rientro in Puglia e nel Materano di produzioni attualmente allocate in Romania, occorra riconoscere ai lavoratori italiani le stesse condizioni economiche rumene”, Ad affermarlo, attraverso una nota diramata dal Gruppo, è lo stesso Natuzzi che da Shangai, dove si trova per una rassegna del settore (e quando manca meno di una settimana al prossimo, decisivo incontro del 16), detta una nota nella quale elenca i punti della trattativa in corso, e nello stesso tempo cerca di mettere la sordina alla fuga di notizie che rischiano di far deragliare, a causa delle ripercussioni che il tema può avere a livello nazionale, l’intera trattativa. Ma se l’imprenditore smentisce “nella maniera più categorica” di aver fatto, lui o il suo Gruppo, affermazioni che, nella necessaria concisione dei giornali (a riportarle, oltre al nostro sono stati Libero e Corriere della Sera) potrebbero suonare ricattatorie alle orecchie dei dipendenti, altri – in particolare tra i sindacalisti – hanno parlato. Qualcuno, tra quanti hanno partecipato alla trattativa condotta fin qui, si è lasciato sfuggire che da parte aziendale si pone una precisa richiesta, quella di limare al massimo lo scarto esistente tra il costo del lavoro rumeno (0.30 euro al munuto) e quello italiano (0,92). E che allo stato si sarebbe attestati sulla quota 050.
Del resto che quello del costo del lavoro sia il nodo principale della trattativa è scontato. E lo stesso Natuzzi spiega cha ”il presupposto indispensabile per la buona riuscita dell’ipotesi” è che ognuno porti avanti i compiti assegnati: che Governo e Regioni, innanzitutto, garantiscano “interventi finalizzati alla riduzione del costo del lavoro e all’attuazione dell’Accordo di Programma (quello da 1oo milioni di euro che vede partner del governo le Regioni Puglia e Basilicata) per rendere “appetibile l’inizio di nuove attività “imprenditoriali”; che l’azienda “si impegni a riportare in Italia parte delle produzioni estere” accollandosi il maggior costo dell’operazione; e che i sindacati, proseguano “nella strada del dialogo e del confronto, all’interno del percorso istituzionale concordato”. Ad ogni buon conto si precisa che ”il progetto di rientro in Italia di alcune produzioni attualmente realizzate nello stabilimento rumeno del Gruppo dev’essere ancora verificato nella sua sostenibilità economica e nella sua attuabilità, ed è subordinato a fattori che dovranno ancora essere affrontati dalle parti”. Per inciso il fronte sindacale non è proprio granitico al proprio interno, diviso com’è tra la Uil, da un lato, aperta a qualsiasi compromesso pur di chiudere la trattativa salvando posti di lavoro, e la Cisl e la Cgil dall’altro. Tant’è che in una nota diffusa ieri sera dal segretario della Uil di Matera, Franco Coppola, sottolineati “lo spessore e la capacità imprenditoriale di Natuzzi (non si raggiungono a caso le dimensioni a cui il gruppo è arrivato su base mondiale)”, si esclude che l’imprenditore abbia potuto proporre “la inopinata ed impossibile equiparazione dei salari”; ma si richiamano gli altri sindacati a “ripiegarsi urgentemente su una posizione di grande concretezza che concerne la possibilità, per un periodo definito e limitato, di prevedere salari di ingresso dignitosi anche in deroga ai limiti contrattuali e con l’obbligo successivo di trasformare questi rapporti di lavoro a tempo indeterminato”.
a.grassi@luedi.it
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