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POTENZA – Ida ha un figlio. Ora ha 14 anni, sembra che gli piaccia suonare il violino, meno andare a scuola. E’ alto, porta i capelli corti, ha ancora gli occhiali?
Ida lo ignora. Quello che sa di suo figlio lo ha letto sui verbali degli assistenti sociali che l’hanno seguito nel corso degli anni. Se dovesse incontrarlo casualmente per strada forse neppure lo riconoscerebbe. Ha con sé le foto di quel bambino quando è nato, quando fa i primi passi, mentre gioca con la sua mamma a bordo di una piscina. Ma tutte le foto si fermano a un certo punto. A quando quel bambino aveva sei anni.
«Questa foto – dice mostrandone una in particolare – è stata scattata il giorno in cui ho visto mio figlio per l’ultima volta». La mamma è seduta, il piccolo l’abbraccia affettuosamente poggiando la testa su quella della madre. Sorridono entrambi, mentre Ida tiene strette al petto le mani del suo piccino. Sarà per l’ultima volta. Perchè Ida da allora non ha più avuto la possibilità di incontrare suo figlio. Era l’aprile del 2006.
E da allora non ci sono più foto. Neppure una.
Eppure Ida Tallarico non è una criminale. Se lo fosse stata forse qualcuno potrebbe anche comprendere il motivo per il quale si cancella così, da un momento all’altro, la figura della mamma dalla vita di un bambino di appena sei anni. Ida non è mai stata condannata per violenza su minore o per chissà quale altro crimine.
La colpa di Ida è di non essere ricca. Di non essere in grado, con i soli suoi mezzi, di far fronte alle esigenze di suo figlio. Il suo ultimo Isee (Indicatore della situazione economica equivalente) parla chiaro: 2.192 euro. Questo è il suo reddito annuale.
E poi – stando a una relazione dei servizi sociali – ha un’altra “colpa” Ida Tallarico: «dall’età di 19 mesi è stata collocata, unitamente alla sorella, presso un’Istituto per l’infanzia (Ipai), non ha mai conosciuto il padre, che ha visto solo in età adulta in occasione del decesso di quest’ultimo». Una condizione che l’avrebbe resa inidonea alla cura di un bambino, «non avendo sperimentato l’accudimento a sua volta come figlia, non avendo avuto una figura materna di riferimento».
Senza troppi soldi e con un passato difficile alle spalle: per questi motivi, Ida non vede più suo figlio da otto anni. Gli è stata negata la possibilità di incontrarlo, vederlo e abbracciarlo. Gli è stata negata la possibilità di sentirlo, di avere un rapporto minimo con lui. Gli è stata negata la possibilità di vedere il volto del suo bambino anche solo in fotografia. E questo nello stesso Paese che garantisce anche alle mamme detenute di tenere il figlio in carcere. Ma Ida «non ha avuto una figura materna di riferimento», e per questo non merita di essere madre. E così gli è stato negato il diritto di veder crescere il suo bambino, di consolarlo quando stava male, di aiutarlo a fare i compiti, di festeggiare i suoi ultimi otto compleanni. Una vita normale. È questo quello che Ida chiede e che non ha.
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Questa storia inizia nel 1992, quando Ida si sposa con un uomo originario del Marocco. Un matrimonio che fin dall’inizio non va benissimo. I due sposi non stanno quasi mai insieme. Lui è sempre lontano. Per questioni di lavoro, dice a Ida. Un matrimonio pieno di difficoltà, dal quale però nel 1999 nasce un bambino. Un arrivo che non migliora affatto la situazione, al contrario. Nel 2001 il marito di Ida si trasferisce definitivamente nelle Marche. E l’inizio di un periodo davvero molto difficile. Ida è sola e con un bambino in tenera età. Non ha alcun reddito, se non qualcosina che gli manda il marito. «Cento euro ogni mese più o meno», dice Ida. Troppo poco per garantire condizioni di vita dignitose per madre e figlio.
Esasperata e disperata, Ida allora chiede al padre di assumersi le proprie responsabilità: è la fine del 2003 «e gli chiedo di tenere il bambino per un breve periodo. Resta con il padre per un mese e otto giorni. Quando torna noto qualche cambiamento. Ha dei comportamenti strani, che io prontamente segnalo ai servizi sociali a cui mi ero rivolta per avere un po’ d’aiuto. Avevo trovato, nel frattempo, un lavoro come badante a un anziano. Ma era un lavoro che mi teneva impegnata 24 ore su 24. E io avevo bisogno di un sostegno». Anche perché nel 2004 si avvia la separazione dal marito. Così il piccolo viene prima temporaneamente affidato a una famiglia, poi trasferito nella casa famiglia “La stella del mattino”. Nel maggio del 2005 – il piccolo ha 4 anni – il Tribunale dei minorenni di Potenza dispone l’affidamento del minore al padre – che vive stabilmente nelle Marche – e il diritto di visita della madre prima due volte, poi una sola volta al mese, ma «con modalità protette», ovvero sempre alla presenza di un assistente sociale.
«Mio figlio – spiega Ida – ha raccontato che io gli avevo dato le botte e che lui voleva stare con il padre. E quando io gli ho chiesto perché l’avesse fatto, mi ha risposto: “le persone cattive mi hanno fatto dire cose brutte su di te”».
Che sia vero o no quello che il bambino ha raccontato nessuno si premura più di tanto di appurarlo: il piccolo viene affidato al padre che nel frattempo si è rifatto un’altra vita da un altro parte. Da quel momento il rapporto tra Ida e suo figlio si regge sulle telefonate e su quell’ora al mese che le viene concessa. «Incontri a cui il mio ex marito partecipa regolarmente». Incontri in cui la tensione si taglia con il coltello, in cui capita che ci siano litigi, in cui Ida ha veramente poco tempo da trascorrere da sola con il figlio. «Però noi due insieme stavamo bene, giocavamo e ci divertivamo. E lui mi chiedeva di stare con me. E io tutte le volte lo rassicuravo che mammina sarebbe riuscita a risolvere tutto».
Poi nel 2006, dopo l’ennesima relazione dei servizi sociali marchigiani (evitiamo di dare riferimenti precisi per tutelare la privacy del minore), Ida Tallarico perde definitivamente la possibilità di incontrare suo figlio. La relazione parla di un «rapporto conflittuale e poco sereno del bambino, nonchè un disagio del minore a relazionarsi con la madre». Nessuno pensa che la poca serenità per il bambino possa nascere dal vedere sua madre una sola volta al mese? E se il bambino, più semplicemente, soffrisse per quella separazione e si fosse convito che la colpa è della madre che non lo voleva con sé? E’ possibile, ma nessuno approfondisce. Ida fa denunce e querele, tutte finite nel nulla.
Perde la potestà genitoriale. E il diritto di vedere e sentire suo figlio. Inizia così un lungo iter giudiziario. E un grande travaglio personale. Per rispettare la volontà di un decreto che le impedisce di avere rapporti con il bambino, Ida chiama solo l’ex marito o l’assistente sociale. Si fida della legge, è convinta che prima o poi qualcuno si renderà conto che è stato brutalmente tolto un figlio a una madre. Aspetta anno dopo anno, lettera dopo lettera, decreto dopo decreto.
Ma pian piano quella fiducia sfuma. Perché chi gli aveva imposto di allontanarsi dal figlio dopo qualche anno la accusa di essersi disisnteressata del bambino, «al quale non ha inviato neppure un regalo».
Così Ida cambia registro e prova a inviare lettere – che non sa se il figlio ha mai letto – e regali. Per il suo quattordicesimo compleanno ha spedito un telefono cellulare, con la speranza che lui decidesse di chiamarla. E poi ha deciso di chiamare lei, per poter fare almeno gli auguri a quel suo bimbo ormai diventato grande. «Dove sei stata finora?», le ha chiesto. «Io ho combattuto per te in questi anni», ha risposto Ida. Ed è vero: ha registrato ogni singola telefonata, appuntato ogni parola. Ha registrato ogni attimo di questi ultimi anni vissuti senza il figlio.
Ma come convincere un ragazzo che per otto anni non ha visto sua madre che lei è sempre stata lì?
«Abbiamo sempre avuto un legame speciale – dice Ida – so che potremmo recuperare il nostro rapporto se potessimo trascorrere un po’ di tempo insieme». Ma quell’unica telefonata avrebbe turbato a tal punto il ragazzo da indurre i servizi sociali a interrompere nuovamente i contatti telefonici. E così Ida si ritrova ancora tra tribunali e avvocati a inseguire la speranza che un giudice revochi il provvedimento con cui le viene tolto ogni diritto genitoriale.
Solo che ora non è disposta ad aspettare altri otto anni. «Ho scritto a tutti, anche al presidente della Repubblica. Voglio rivedere mio figlio e ho già perso troppo tempo». Quelle foto quasi sbiadite non possono più bastare.
a.giacummo@luedi.it
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